Ricorso della Regione Emilia-Romagna in persona del presidente della giunta regionale pro tempore, sig. Vasco Errani, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 64 del 19 gennaio 2004 (doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale a rogito del notaio dott. Federico Stame di Bologna, rep. n. 47915 del 19 gennaio 2004 (doc. 2), dal prof. avv. Giandomenico Falcon del foro di Padova, dal prof. avv. Franco Mastragostino del foro di Bologna e dall'avv. Luigi Manzi del foro di Roma, con domicillo eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5; Contro Presidente del Consiglio di ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge 24 novembre 2003, n. 326, «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 274 del 25 novembre 2003 - supplemento ordinario n. 181, nella parte in cui converte, con modificazioni, i seguenti articoli: art. 21 (Assegno per ogni secondo figlio e incremento del fondo nazionale per le politiche sociali) per violazione degli artt. 3, 97, 117, 119 Cost.; art. 32, comma 21 e comma 22 (inerenti all'incremento dei canoni demaniali), quest'ultimo nel testo sostituito dall'art. 2, comma 53 della legge finanziaria 24 dicembre 2003, n. 350, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost. del principio di leale collaborazione e del canone di ragionevolezza; art. 32 ed in particolare i commi: 1, 2, 3, 25 e 26, lett. a), in quanto prevedono un nuovo condono edilizio; 25 in quanto non eccettua dal condono gli abusi per i quali il procedimento sanzionatorio sia gia' iniziato; 26, lett. a), in quanto subordina la sanabilita' alla legge regionale per gli abusi minori in zone non vincolate, sottraendo a questo regime gli abusi maggiori e gli abusi minori in zone vincolate; 3, 25 26, lett. a), 28, 32, 35 lett. a) e b), 37, 38 e 40 e allegato 1, in quanto, con disciplina dettagliata e autoapplicativa, stabiliscono le condizioni, le modalita', i termini e le procedure relative al condono edilizio; 25 e 35, in quanto consentono di «far passare» per gia' costruite opere in corso di costruzione o ancora da costruire; 37, in quanto prevede un meccanismo di silenzio-assenso; 25, in quanto prevede un limite di volume per ogni singola richiesta; 1, 2, 3, 25, 26 lett. a) per mancato coinvolgimento delle regioni, per violazione degli articoli 3, primo comma, 5, 9, 97 primo comma, 114 primo comma, 117 secondo comma, 117 terzo comma, 118 primo comma Cost. nonche' del principio di ragionevolezza, di indisponibilita' dei valori costituzionalmente tutelati e del principio di leale collaborazione tra lo Stato e le regioni. F a t t o Con la legge 24 novembre 2003, n. 326 pubblicata nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale 25 novembre 2003, n. 274, e' stato convertito, con modificazioni, il decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, con il quale lo Stato ha assunto misure «urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici», che, al di la' del merito e della opportunita' e giustificazione della manovra, contengono alcune disposizioni sicuramente lesive delle competenze regionali. Le piu' eclatanti, per ambito e portata di intervento, sono quelle che riguardano la previsione di un nuovo condono edilizio, che la Regione Emilia-Romagna ha gia' impugnato, con ricorso avverso l'art. 32 del decreto-legge n. 269/2003, che risulta pendente avanti a codesta Corte con il n. 83/2003. Poiche' la legge n. 326/2003 ha convertito il d.l. lasciando nella sostanza inalterate quasi tutte le disposizioni censurate con il ricorso n. 83/2003, e' evidente che la legge sopracitata e' affetta dai medesimi vizi di costituzionalita' denunciati in relazione al decreto-legge. Sussistono, inoltre, profili di illegittimita' costituzionale in relazione ad altre disposizioni della legge n. 326/2003, come evidenziate in epigrafe, che vengono impugnate per la prima volta in questa sede. D i r i t t o I Per comodita' di esposizione conviene prendere avvio dai motivi di impugnazione che si formulano per la prima volta avverso le disposizioni della legge n. 326/2003. 1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 21 della legge n. 326/2001 (Assegno per ogni secondo figlio e incremento del fondo nazionale per le politiche sociali) per violazione degli artt. 3, 117 e 119 Cost. Per ogni figlio, secondo od ulteriore, nato fra il 1° dicembre 2003 e fino al 31 dicembre 2004, o adottato, la disposizione in questione dispone che e' concesso un'assegno pari a 1000 euro. Per tali finalita' e' istituita una speciale gestione presso l'INPS, fino a 308 milioni di euro. L'assegno e' concesso dai comuni che, previa informazione agli interessati, provvedono a far certificare il possesso dei requisiti all'atto di iscrizione all'anagrafe dei nuovi nati. L'assegno e' comunque erogato dall'INPS, sulla base dei dati forniti dai comuni medesimi, secondo modalita' da definire con uno o piu' «decreti di natura non regolamentare» del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. Il comma 6 prevede, inoltre, che «per il finanziamento delle politiche in favore delle famiglie il Fondo nazionale per le politiche sociali di cui all'art. 59, comma 44, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, a successive modificazioni, e' incrementato di 232 milioni di euro per l'anno 2004». Il comma 7 dispone che per «le finalita' del presente articolo e' autorizzata la spesa di 287 milioni di euro per l'anno 2003 e di 253 milioni di euro per l'anno 2004. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2003-2005, nell'ambito dell'unita' previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2003, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero del lavoro e delle politiche sociali.». Questa disposizione verra' poi integrata da una norma ulteriore (che sara' oggetto di impugnazione separata da parte della Regione Emilia-Romagna) contenuta nel comma 116 dell'art. 3 della legge 27 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria per il 2004), che specifica gli interventi per i quali tale Fondo puo' essere utilizzato nel 2004 (politiche per la famiglia e in particolare per anziani e disabili; abbattimento delle barriere architettoniche; servizi per l'integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap; servizi per la prima infanzia e scuole dell'infanzia, per i quali il comma 117 indica anche le procedure da seguire) e il relativo riparto delle risorse. Non vi e' dubbio che gli interventi previsti dalle disposizioni citate rientrano nella materia «servizi sociali», di sicura spettanza della regione. Si tratta, infatti, di misure che attengono alla programmazione dell'assistenza alla famiglia e sono, quindi, coessenziali alla politica sociale. Con le disposizioni impugnate, lo Stato non solo decide unilateralmente in quale direzione svolgere l'intervento pubblico in materia di sostegno della famiglia, ma istituisce, incrementa e disciplina un Fondo apposito del quale poi continua liberamente a disporre selezionando le linee di impiego e la relativa quantificazione della spesa. Non occorre entrare in valutazioni di merito di questi interventi, benche' in essi appaiano quantomeno contestabili sia l'esclusione dalle provvidenze delle famiglie di cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia (esclusione contraria a quei «diritti di cittadinanza posti tra i «Principi generali del sistema integrato di interventi e servizi sociali» dall'art. 1, e ribaditi dall'art. 2, comma 1, della legge 8 novembre 2000, n. 328 - legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), sia l'attribuzione indistinta dell'assegno, in cui non si tengono in alcun conto le condizioni sociali ed economiche dei beneficiari, con la conseguenza che viene a mancare un elemento di equita' e di giustizia sociale (in violazione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. e chiaramente specificato dall'art. 2, comma 3, della legge quadro). Queste considerazioni costituiscono gia' di per se' autonome censure di costituzionalita' e si affiancano a quelle che dal punto di vista della lesione delle competenze della ricorrente regione - sono le fondamentali censure di violazione degli artt. 117 e 119 Cost. La violazione dell'art. 117 Cost. e' resa evidente dal fatto che gli interventi di sostegno della famiglia, come pure gli altri interventi sostenuti dal Fondo nazionale per le politiche sociali, cosi' come articolati e specificati dalla citata norma delle legge finanziaria 2004, rientrano tutti nella materia «servizi sociali». Gia' il capo II del titolo IV del decreto leg. n. 112/1998, del resto, aveva definito con estensione la materia, come comprensiva di «tutte le attivita' relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficolta' che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonche' quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia» (art. 128, comma 2, richiamato dall'art. 1, comma 2, della citata legge quadro). E' vero che la recente giurisprudenza di codesta Corte ha spesso richiamato l'attenzione sulla necessita' di tenere in considerazione gli altri interessi che possono convergere nella disciplina di una materia e attrarne la competenza ad un livello diverso, anche in nome del principio di sussidiarieta' e di adeguatezza, ma e' altresi' vero che per l'erogazione di provvidenze a favore delle famiglie (quanto per gli altri interventi previsti a carico del Fondo nazionale) non sembrano in alcun modo invocabili interessi (come quelli in materia previdenziale, i profili professionali o l'assistenza temporanea ai profughi, per esempio) che giustifichino l'intervento unilaterale dello Stato. Lo comprova il fatto che gia' il conferimento disposto dal d.lgs. n. 112/1998 prevedeva espressamente (art. 132, lett. d) i servizi sociali diretti alla famiglia come oggetto specifico di competenza legislativa delle regioni, cui era fatto obbligo di conferire le relative funzioni amministrative ai comuni e agli altri enti locali. D'altra parte, non appare in alcun modo invocabile la potesta' che lo Stato puo' esercitare in via esclusiva per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma 2, lettera m). Tale potesta' consente allo Stato di emanare le «norma necessarie per assicurare a tutti, sull'intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle» (sent. n. 282/2002), attribuendogli «un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformita' di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto» (sent. n. 88/2003). Viceversa, risulta con tutta evidenza che la normativa impugnata non determina affatto i livelli delle prestazioni che devono essere garantite uniformemente dalle regioni e dagli enti locali. Ci si trova in questo caso in situazione analoga a quella decisa da codesta Corte con la sent. n. 370/2003, a proposito dell'art. 70 della legge finanziaria 2002; come in quel caso (che riguardava finanziamenti per gli asili nido), anche la disposizione ora impugnata «non ha affatto le caratteristiche sostanziali e formali che potrebbero farlo annoverare fra gli atti espressivi di questo potere di predeterminazione normativa dei livelli essenziali, e per di piu' non vi sono «titoli» diversi in nome dei quali lo Stato possa attrarre a se' la disciplina, delegando i comuni ad attivita' di tipo istruttorio e pretermettendo totalmente le regioni. Nella norma impugnata viene persino esclusa qualsiasi procedura di coinvolgimento delle regioni nella programmazione degli interventi, come sarebbe viceversa d'obbligo, per consolidata opinione espressa da codesta Corte, quando lo Stato intervenisse in materie di competenza regionale in nome della tutela delle «esigenze unitarie» (cfr. sentt. 88/2003, 303/2003, 6/2004), o quando ci si trovasse di fronte a competenze necessariamente e inestricabilmente connesse (sentt. 422/2002, 308/2003), ipotesi che pero' nel presente caso non ricorrono affatto. Oltretutto, dalla concezione «centralistica» degli intereventi a favore delle famiglie discende anche una grave distorsione: proprio la circostanza che siano i comuni a condurre l'istruttoria - la quale prende avvio solo se previamente siano stati informati gli interessati e previo accertamento del possesso dei requisiti, come risultanti da dichiarazioni dell'interessato all'anagrafe - fa emergere un problema di diversificazione della concreta applicazione della misura a seconda dell'efficienza e organizzazione che il singolo ente locale sara' in grado di assicurare e non in ragione dello stato di bisogno delle famiglie e delle condizioni di denatalita' che si verificano nelle specifiche realta' locali. Una programmazione degli interventi fondata sulle competenze delle Regioni (le quali, come stabiliva - prima della riforma costituzionale del titolo V - l'art. 4, comma 3, della legge quadro, «provvedono alla ripartizione dei finanziamenti assegnati dallo Stato per obiettivi ed interventi di settore, nonche' in forma sussidiaria, a cofinanziare interventi e servizi sociali derivanti dai provvedimenti regionali di trasferimento agli enti locali delle materie individuate dal citato art. 132») e delle autonomie locali (a cui, infatti, gia' l'art. 131, comma 2, del d.lgs. n. 112/1998 attribuiva il compito di erogare i servizi e le prestazioni sociali progettandoli in modo coordinato «in rete») avrebbe assicurato, oltre ad un maggiore rispetto delle disposizioni costituzionali, la chiarezza e ragionevolezza dell'intervento e con cio', in sostanza, l'equita' nella distribuzione del premio. Al contrario, le disposizioni impugnate, nel prevedere interventi di questo tipo decisi dal centro, operano non in attuazione del principio di sussidiarieta', ma contro di esso, non in nome, ma contro i principi costituzionali di eguaglianza e di solidarieta' sociale con i soggetti in stato di bisogno, non in nome, ma contro i principi di «programmazione degli interventi e delle risorse, dell'operativita' per progetti, della verifica sistematica dei risultati in termini di qualita' e di efficacia delle prestazioni, nonche' della valutazione di impatto di genere» (art. 3, comma 1, della legge quadro). La norma impugnata costituisce, inoltre, una macroscopica violazione dell'art. 119 Cost. Come la Corte ha avuto modo di sottolineare nella gia' richiamata sent. 370/2003, «nel nuovo sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di regioni ed enti locali, lo Stato puo' erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione in particolare tramite il fondo perequativo di cui all'art. 119, terzo comma, della Costituzione». Il meccanismo di finanziamento delineato dalla norma censurata, che gia' non sarebbe stato coerente con il precedente assetto legislativo (infatti l'art. 129, lett. e) del d.lgs. n. 112/1998 e l'art. 9, comma 1, lett. f) della legge quadro prevedevano che lo Stato ripartisse il Fondo tra le regioni, e non che ne disponesse direttamente), non e' piu' utilizzabile a seguito dei rilevanti mutamenti introdotti dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della seconda parte della Costituzione). «Il nuovo art. 119 della Costituzione - afferma la sent. n. 370 - prevede espressamente, al quarto comma, che le funzioni pubbliche regionali e locali debbano essere «integralmente» finanziate tramite i proventi delle entrate proprie e la compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio dell'ente interessato, di cui al secondo comma, nonche' con quote del «fondo perequativo senza vincoli di destinazione», di cui al terzo comma. Gli altri possibili finanziamenti da parte dello Stato, previsti dal quinto comma, sono costituiti solo da risorse eventuali ed aggiuntive «per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarieta' sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni ed erogati in favore «di determinati comuni, province, citta' metropolitane e regioni». Dal momento che l'attivita' dello speciale servizio pubblico costituito dagli interventi a favore della famiglia rientra palesemente nella sfera delle funzioni proprie delle regioni e degli enti locali, non si puo' che concludere che «e' contraria alla disciplina costituzionale vigente la configurazione di un fondo settoriale di finanziamento gestito dallo Stato, che viola in modo palese l'autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa delle regioni e degli enti locali e mantiene allo Stato alcuni poteri discrezionali nella materia cui si riferisce» (ancora sent. n. 370/2003). Ne risulta percio' l'illegittimita' non solo del singolo atto di disposizione del Fondo, come quello contenuto nell'articolo impugnato, ma della stessa previsione di un Fondo nazionale per le politiche sociali, che non appare piu' compatibile con il novellato art. 119 Cost. Ne' puo' essere invocata la perdurante inattuazione dell'art. 119: a parte che «la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle regioni e degli enti locali contraddittorie con l'art. 119 della Costituzione espone a rischi di cattiva funzionalita' o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali» (sent. n. 370/2003), codesta Corte ha sottolineato che «fin d'ora lo Stato puo' e deve agire in conformita' al nuovo riparto di competenze e alle nuove regole, disponendo i trasferimenti senza vincoli di destinazione specifica, o, se del caso, passando attraverso il filtro dei programmi regionali, coinvolgendo dunque le regioni interessate nei processi decisionali concernenti il riparto e la destinazione dei fondi, e rispettando altresi' l'autonomia di spesa degli enti locali» (sent. n. 16/2004). Da questi canoni l'impugnato art. 21 si discosta con irrimediabile evidenza. 2. - Illegittimita' costituzionale dell'art 32, commi 21 e 22, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost. e del principio di leale collaborazione, nonche' del canone di ragionevolezza. I commi sopra citati concernono l'aumento dei canoni per le concessioni d'uso del demanio marittimo per finalita' turistico-ricreative, di cui viene tout court disposto l'incremento del trecento per cento. La successiva legge finanziaria ha modificato il comma 22 stabilendo che l'aumento e' fissato con un decreto interministeriale, da emanarsi entro il 30 giugno 2004, al quale e' fissato, come unico parametro o indirizzo, l'obiettivo finanziario di assicurare «maggiori entrate non inferiori a 140 milioni di euro a decorrere dal 1° gennaio 2004»: decorso il termine per l'emanazione di tale decreto, scatta automaticamente e retroattivamente la quadruplicazione del canone. Come e' noto, tutte le funzioni amministrative inerenti allo sfruttamento per finalita' turistico-ricreative del demanio marittimo sono state conferite alle regioni a far tempo dal d.lgs. n. 112/1998. In precedenza erano state delegate alle regioni gia' dall'art. 59 del d.P.R. n. 616/1977, in considerazione della stretta attinenza dell'esercizio delle funzioni concessorie con la materia turismo e attivita' ricreative. In effetti, in molte regioni, e segnatamente nell'Emilia-Romagna, il demanio marittimo rappresenta un fattore di enorme importanza per la politica e l'economia del turismo. Con la presente impugnazione la regione non contesta il diritto dominicale dello Stato di fissare un canone per l'utilizzo dei suoi beni demaniali. Essa contesta invece la legittimita' costituzionale della misura, del metodo e della forma con cui l'aumento e' stato deciso, in quanto tale illegittimita' costituzione comporta una lesione delle competenze regionali nella materia del turismo. Quanto alla misura, non puo' non essere rilevato che la quadruplicazione del canone e' contemporaneamente: un intervento dagli effetti assai gravi per la totalita' delle imprese balneari; una misura discriminatoria rispetto agli altri canoni; non fondata su specifiche considerazioni di fatto e sul livello dei precedenti canoni. Va rilevato che i canoni erano stati fissati con il d.m n. 342 del 1998, per cui, dato l'andamento contenuto dell'inflazione, non rappresentavano certo evidenti anacronismi rispetto alla attuale realta' economico-finanziaria tanto piu' che l'art. 4 del decreto-legge n. 400/1993 prevede che «i canoni annui relativi alle concessioni demaniali marittime sono aggiornati annualmente, con decreto del Ministro della marina mercantile, sulla base della media degli indici determinati dall'ISTAT». E' singolare che proprio su questa unica categoria di canoni si sia percio' concentrata la rapace attenzione del Tesoro, trascurando ben altri e piu' lucrosi settori in cui i beni pubblici sono sfruttati per produrre reddito a favore degli operatori privati; per lo stesso sfruttamento del demanio marittimo il provvedimento crea un'ingiustificata discriminazione tra gli imprenditori turistici e le altre categorie di imprenditori che usano il demanio per finalita' non turistiche. Come detto, non si contesta il potere del Governo di valutare per quali categorie di beni pubblici sia conveniente e in che misura elevare i canoni dell'utilizzazione privata; ma e' evidente che queste valutazioni non possono prescindere dal rispetto del consueti criteri di ragionevolezza, congruita' e giustizia. Va, infatti, considerato anche che l'art. 1, comma 2, del citato decreto-legge n. 400/1993 fissa in sei anni la durata delle concessioni, indipendentemente dalla natura o dal tipo degli impianti previsti per lo svolgimento delle attivita'; alla scadenza le concessioni si rinnovano automaticamente per altri sei anni e cosi' successivamente ad ogni scadenza. La ratio di queste disposizioni, di evidente favor per gli operatori turistici, e' di incentivare gli investimenti nelle aree demaniali a vocazione turistica dando la sicurezza di continuita' agli imprenditori di settore. I vizi di legittimita' cosi' denunciati incidono direttamente sugli interessi della regione e ne compromettono le attribuzioni in materia turistica. La forte incidenza del fattore fiscale sulla operativita' delle imprese turistiche, infatti, compromette l'azione promozionale, di programmazione e di sviluppo che la Regione Emilia-Romagna ha esercitato in un settore fondamentale per il suo sviluppo economico. Inoltre, un aumento cosi' esorbitante del canone di concessione comprime le risorse degli imprenditori turistici impedendo loro di intraprendere gli investimenti necessari per restare competitivi in un settore che e' ormai diventato altamente concorrenziale, e gravemente riduce la possibilita' per essi di proseguire in quelle opere e iniziative che tradizionalmente sono state dirette ad interessi pubblici quali la sicurezza degli utenti, la tutela ambientale, ecc. Inoltre, per la stessa regione, di conseguenza, diventa impossibile qualsiasi aggiornamento dei propri diritti di imposta, attualmente prevista e disciplinata dalla legge regionale 31 maggio 2002, n. 9, attraverso i quali e' stato possibile finanziare l'esercizio delle funzioni amministrative (di rilascio, rinnovo, modifica delle concessioni demaniali marittime a finalita' turistico-ricreative, di quelle inerenti ai porti di interesse regionale e sub-regionale ed inerenti ad esercizio del commercio su aree demaniali) in larga parte delegate agli enti locali. Risulti evidente la sproporzione tra i diritti derivanti dalla mera e passiva proprieta' dei beni demaniali e i diritti derivanti dall'attivo esercizio di importanti funzioni amministrative, legate allo sviluppo economico, alla sicurezza, alla tutela ambientale. Quanto al metodo, va rilevato che il d.l. n. 400/1993, cosi' come convertito dalla legge n. 494/1993, aveva correttamente considerato lo stretto legame che deve sussistere fra la determinazione dei diritti spettanti al proprietario e gli interessi dei soggetti chiamati ad amministrare tali beni a fini turistici e a disciplinare la materia: infatti, veniva prevista dall'art. 3 del decreto-legge che «i canoni annui per concessioni con finalita' turistico-ricreative di aree, pertinenze demaniali marittime e specchi acquei per i quali si applicano le disposizioni relative alle utilizzazioni del demanio marittimo sono determinati, a decorrere dal 1° gennaio 1994, con decreto del Ministro della marina mercantile, emanato sentita la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano». Di questo indispensabile passaggio procedurale si e' invece persa la traccia sia nei commi 21 e 22 del decreto-legge impugnato, sia nel comma 53 dell'art. 2 della legge finanziaria, nonostante fosse stato esplicito l'invito formulato alla Camera dei deputati nel corso dell'approvazione della legge di conversione (si veda l'o.d.g. presentato dall'on. La Malfa il 19 novembre 2003). La deliberata esclusione del parere della Conferenza Stato-Regione si riverbera percio' nella violazione del principio di leale collaborazione che, come la costante giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato, rappresenta l'ineliminabile onere procedurale che deve essere assolto da tutti i provvedimenti che incidono su «materie» in cui gli interessi dello Stato convergono e devono armonizzarsi con quelli delle Regioni. Quanto alla forma, infine, la scarsa coerenza tra i commi 21 e 22 dell'articolo impugnato e' stata ulteriormente aggravata dalla riforma introdotta dalla successiva legge finanziaria. Persino nei lavori parlamentari (si veda ancora l'o.d.g. La Malfa) non risultava affatto chiara la portata dei due commi, sembrando addirittura possibile un'interpretazione per cui essi prevedessero due provvedimenti diversi, il comma 21, ma non il 22, riguardando le concessioni a finalita' turistico-ricreative. Ogni invito delle Camere a riconsiderare la questione e a chiarire il testo legislativo (si veda l'o.d.g. 9/4447/96 proposto dall'on. Cazzaro, approvato dalla Camera dei deputati e accettato dal Governo) e' stato disatteso dato che la modifica introdotta dalla legge finanziaria non chiarisce affatto i rapporti tra i due commi, ne' introduce il doveroso obbligo delle autorita' ministeriali di sottoporre il provvedimento al previo parere della Conferenza Stato-regioni. Per tutti gli enunciati profili le disposizioni impugnate risultano lesive delle attribuzioni regionali garantite dall'art. 117 Cost., del principio di leale collaborazione, del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., del principio di certezza del diritto e del generale canone di ragionevolezza delle leggi. Si ripropongono, ora, i motivi di impugnazione riguardanti il corpus di disposizioni inerenti al condono edilizio, contenuti nel ricorso n. 83/2003 promosso avverso il decreto-legge n. 269/2003, di cui si reputa opportuno riprodurre integralmente (in carattere corsivo) le argomentazioni gia' espresse, in quanto mantengono tutta la loro validita' anche in relazione alla legge di conversione del decreto-legge. Alcune brevi integrazioni, relative a norme introdotte dopo il decreto-legge, sono evidenziate dal carattere tondo. F a t t o Lo «storico» condono edilizio fu infrodotto dalla legge n. 47 del 1985, come evento assolutamente eccezionale e correlato a rilevanti innovazioni nella disciplina edilizia. A distanza di nove anni la legge n. 724 del 1994 riapri' i termini del condono. Ed ora, a distanza ancora di nove anni, l'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 prevede un nuovo condono, riprendendo con modifiche le regole sostanziali e procedurali del 1985 e del 1994. L'art. 32 del decreto-legge, che contiene la normativa qui impugnata e' intitolato Misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attivita' di repressione dell'abusivismo edilizio, nonche' per la definizione degli illeciti e delle occupazioni di aree demaniali. Il comma 1 dichiara la finalita' di «pervenire alla regolarizzazione del settore». Il comma 2 dichiara altresi' che «la normativa e' disposta nelle more dell'adeguamento della disciplina regionale al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in conformita' al titolo V della Costituzione come modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3» e che sono «comunque fatte salve le competenze delle autonomie locali sul governo del territorio». Il comma 3 precisa che «le condizioni, i limiti e le modalita' del rilascio del predetto titolo abilitativo sono stabilite dal presente articolo e dalle normative regionali». In questi termini, pur se talune delle citate formulazioni non sembrano davvero perspicue - come quella che non si sa a quali fini precisa trattarsi di una normativa adottata «nelle more» di un adeguamento che tra l'altro per la Regione Emilia-Romagna e' gia' avvenuto con la legge regionale 25 novembre 2002, n. 31 (mod. con l.r. 19 dicembre 2002, n. 37) - l'intitolazione dell'articolo e i primi commi possono dare l'impressione di una normativa «positiva», o comunque - per quanto riguarda piu' strettamente il condono - di una normativa messa a disposizione delle regioni e delle autonomie locali come un principio facoltizzante, secondo cui la legislazione statale ha materia di «governo del territorio» autorizzerebbe le regioni che lo ritenessero a permettere ai propri enti locali di rilasciare concessioni in sanatoria entro i limiti fissati in primo luogo dalle stesse seguenti disposizioni dell'art. 32, in secondo luogo dalle leggi delle singole regioni. Se cosi' fosse, il condono introdotto dall'art. 32 si presterebbe pur sempre ad obiezioni di legittimita' e merito - non sembrando davvero consono alle ragioni di garanzia che presiedono al riconoscimento di una legislazione statale di principio in materia di governo del territorio la fissazione di regole che consentono invece il «non governo» o addritttura il malgoverno - ma almeno nessuna comunita' regionale si vedrebbe costretta ad accettare la sanzione definitiva di quanto di urbanisticamente disordinato ed irregolare possa essere accaduto negli ultimi anni. Sennonche', il carattere rispettoso, se non del territorio, almeno delle autonomie territoriali si rivela esso stesso pura apparenza quando si considerino le rimanenti disposizioni dell'art. 32, dalle quali emergono invece i tratti inconfondibili del vecchio e classico condono, nella stessa versione della legge n. 47 del 1985 e della legge n. 724 del 1994: insomma, del «solito» condono, che si prospetta cosi' come evento ciclico e ricorrente della storia italiana. Sommando tutti i periodi ne risulta che - tranne le eccezioni per le zone soggette a particolari vincoli - chiunque negli ultimi venti anni abbia effettuato opere edilizie ha spregio delle regole sostanziali e formali di governo del territorio ha potuto o potra' trarre vantaggio dal proprio illecito, senza che alcuna considerazione urbanistica possa essergli opposta, alla sola condizione di versare allo Stato una somma di danaro. E che coloro che al contrario hanno rinunciato ad opere che pure sarebbero state per loro vantaggiose in ossequio alla normativa urbanistica o nell'attesa di regolari permessi avranno una nuova ragione di chiedersi - se davvero le regole sono queste - se non avrebbero fatto meglio in passato e non faranno meglio in futuro, a violare anch'essi le norme. In effetti, la «vera» disciplina del nuovo condono inizia con il comma 25, che stabilisce che «le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni come ulteriormente modificate dall'articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni nonche' dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa un ampliamento superiore a 750 mc», e che «le suddette disposizioni trovano altresi' applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 mc per singola richiesta di titoli abilitativi edilizi in sanatoria», con l'aggiunta, avvenuta in sede di conversione «a condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3000 mc». Posto che «la misura dell'oblazione e dell'anticipazione degli oneri concessori, nonche' le relative modalita' di versamento, sono disciplinate nell'allegato 1» (comma 38), l'operativita' di quanto enunciato e' poi assicurata dal comma 28, il quale dispone da un lato che «i termini previsti dalle disposizioni sopra richiamate e decorrenti dalla data di entrata in vigore dell'articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, ove non disposto diversamente, sono da intendersi come riferiti alla data di entrata in vigore del presente decreto», dall'altro che per «quanto non previsto dal presente decreto si applicano, ove compatibili, le disposizioni di cui alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, e al predetto articolo 39». Ulteriori norme sono dettate dal comma 32 («la domanda relativa alla definizione dell'illecito edilizio, con l'attestazione del pagamento dell'oblazione e dell'anticipazione degli oneri concessori, e' presentata al comune competente, a pena di decadenza, entro il 31 marzo 2004, unitamente alla dichiarazione di cui al modello allegato e alla documentazione di cui al comma 35») e dal comma 35, il quale prevede con precisione e dettaglio la documentazione da allegare alla domanda (pur ammettendo che vi possa essere «ulteriore documentazione eventualmente prescritta con norma regionale»!). L'allegato 1 precisa addirittura che la domanda di definizione degli illeciti edilizi «deve essere compilata utilizzando il modello di domanda allegato». La disciplina e' completata dalle norme di chiusura del comma 37, secondo cui «il pagamento degli oneri di concessione, la presentazione della documentazione di cui al comma 35, della denuncia in catasto, della denuncia ai fini dell'imposta comunale degli immobili di cui al d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, nonche', ove dovute, delle denuncie ai fini della tassa per lo smaltimento del rifiuti solidi urbani e per l'occupazione del suolo pubblico, entro il 30 settembre 2004, nonche' il decorso del termine di ventiquattro mesi da tale data senza l'adozione di un provvedimento negativo del comune, equivale a titolo abilitativo edilizio in sanatoria»; e dal comma 40, che avverte il bisogno di precisare che «all'istruttoria della domanda di sanatoria si applicano i medesimi diritti e oneri previsti per il rilascio dei titoli abilitativi edilizi, come disciplinati dalle amministrazioni comunali per le medesime fattispecie di opere edilizie», e che «ai fini della istruttoria delle domande di sanatoria edilizia puo' essere determinato dall'amministrazione comunale un incremento dei predetti diritti e oneri fino ad un massimo del 10 per cento da utilizzare con le modalita' di cui all'articolo 2, comma 46, della legge 23 dicembre 1994, n. 662». Il quadro ora esposto di una normativa statale che drasticamente determina - tranne che per specifiche aree di particolare pregio o in particolari situazioni - il venire meno di qualunque attivita' di repressione degli abusi edilizi compiuti - con totale frustrazione anche dell'attivita' amministrativa in corso - non risulta affatto alterato dai riferimenti che lo stesso art. 32 opera a poteri o compiti regionali. Si tratta infatti di poteri e compiti che rimangono nel quadro marginali ed eventuali, o che addirittura determinano situazioni paradossali. Gia' si e' accennato che secondo il comma 3 «le condizioni, i limiti e le modalita' del rilascio del predetto titolo abilitativo sono stabilite dal presente articolo e dalle normative regionali». Ma e' evidente, nel contesto complessivo sopra illustrato, che questa disposizione non puo' essere affatto intesa come un generico rinvio a quanto sul tema volessero disporre le leggi regionali, ma come un riferimento ai limitatissimi compiti normativi che il «presente articolo» riconosce alle regioni; Di quali compiti normativi si tratti e' presto detto. Su un piano generale, il comma 33 prevede che le regioni «entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (e dunque in un termine brevissimo, tra l'altro coincidente con quello di conversione del decreto stesso!) emanino «norme per la definizione del procedimento amministrativo relativo al rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria». Per vero, non si intende di quali norme possa trattarsi, dato che il procedimento di condono e' gia' definito dalle disposizioni richiamate della legge n. 47 del 1985 e 724 del 1994 nonche' dallo stesso art. 32 del decreto nei commi sopra illustrati. Ed infatti dal seguito del comma 33 e dal comma 34 si capisce che in realta' cio' che alle regioni e' concesso di fare e' di inasprire per i propri cittadini i costi del condono: prevedere «un incremento dell'oblazione fino al massimo del 10 per cento della misura determinata nella tabella C allegata», incrementare gli oneri di concessione fino al massimo del 100 per cento». Inoltre, secondo il comma 34, la legge regionale dovra' stabilire le «modalita' di attuazione» della regola che consente a coloro che intendano eseguire in tutto o in parte le opere di urbanizzazione primaria di «detrarre dall'importo complessivo quanto gia' versato, a titolo di anticipazione degli oneri concessori». Ancora, come gia' visto, il comma 35 ammette che la legge regionale eventualmente preveda «ulteriore documentazione» da allegare alla domanda di condono. Questo e' il ruolo generale che l'art. 32 riserva alla legislazione regionale. Un discorso a parte va poi fatto con riferimento al comma 26. Va premesso che l'Allegato 1 definisce tra l'altro la «tipologia delle opere abusive suscettibili di sanatoria alle condizioni di cui all'art. 7, comma 2» (per vero non si comprende tale riferimento, dato che l'art. 7 del decreto-legge riguarda tutt'altro). In ogni modo, tale tipologia distingue le opere abusive numerate da 1 a 6 in categorie di gravita' decrescente. Precisamente, le tipologie sono le seguenti: «Tipologia 1. Opere realizzate in assenza o in difformita' del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici; «Tipologia 2. Opere realizzate in assenza o in difformita' del titolo abilitativo edilizio, ma conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici alla data di entrata in vigore del presente provvedimento; «Tipologia 3. Opere di ristrutturazione edilizia come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera d) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformita' dal titolo abilitativo edilizio; «Tipologia 4. Opere di restauro e risanamento conservativo come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del d.P.R. giugno 2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformita' del titolo abilitativo edilizio, nelle zone omogenee A di cui all'articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444; «Tipologia 5. Opere di restauro e risanamento conservativo come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del d.P.R. giugno 2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformita' del titolo abilitativo edilizio; «Tipologia 6. Opere di manutenzione straordinaria, come definite all'articolo 3, comma 1, lettera b) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 realizzate in assenza o in difformita' dal titolo abilitativo edilizio; opere o modalita' di esecuzione non valutabili in termini di superficie o di volume». Cio' premesso, il comma 26 dispone che «sono suscettibili di sanatoria edilizia le tipologie di illecito di cui all'allegato 1: a) numeri da 1 a 3, nell'ambito dell'intero territorio nazionale, fermo restando quanto previsto alla lettera e) del comma 27, nonche' 4, 5 e 6 nell'ambito degli immobili soggetti a vincolo di cui all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47; b) numeri 4, 5 e 6, nelle aree non soggette ai vincoli di cui all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, in attuazione di legge regionale, da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, con la quale e' determinata la possibilita', le condizioni e le modalita' per l'ammissibilita' a sanatoria di tali tipologie di abuso edilizio». Ne risulterebbe che, mentre gli abusi piu' gravi, e quelli di minore gravita' compiuti su immobili vincolati (cioe' i piu' gravi degli abusi minori), sarebbero senz'altro sanabili alle condizioni generali; quelli di assoluta minore gravita' (restauro e risanamento conservativo o addirittura la semplice manutenzione straordinaria) sarebbero sanabili ... in quanto le singole regioni lo consentano con le proprie leggi. Precisato che la lettera b) - in quanto riconosce sia pure limitati poteri regionali - non forma oggetto specifico di questa impugnazione, e' tuttavia di immediata evidenza che il sistema che risulterebbe dall'insieme del comma e' come meglio si dira' tra breve, costituzionalmente inaccettabile per irragionevolezza e violazione del principio di uguaglianza. Nei termini esposti, le impugnate disposizioni dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 sono invasive delle competenze costituzionali delle Regioni e costituzionalmente illegittime per le seguenti ragioni di D i r i t t o Premessa. Conviene in primo luogo ricordare che la ricorrente regione propose a suo tempo impugnazione avverso la riapertura del condono operata dall'art. 39 della legge n. 724 del 1994. Codesta ecc.ma Corte costituzionale, riconosciuta la legittimazione all'impugnazione, giudico' nel merito del ricorso con la sentenza n. 416 del 1995. Al punto 7 in diritto codesta Corte cosi' si espresse: «Innanzitutto deve escludersi che la riapertura e l'estensione dei termini (riferiti all'epoca dell'abuso commesso) del condono edilizio (peraltro con ulteriori limiti e presupposti riduttivi) il cui carattere essenziale nella fattispecie e' quello di norma del tutto eccezionale in relazione ad esigenze di contestuale intervento sulla disciplina concessoria e a contingenti e straordinarie ragioni finanziarie e di recupero della base impositiva dei fabbricati, vanifichi di per se' l'azione di controllo e di repressione delle amministrazioni ed in particolare delle piu' attente. Infatti l'entita' del fenomeno di applicazione ed utilizzazione della norma impugnata nelle varie regioni (con un introito effettivo di quasi tremila miliardi limitato alla prima fase dei pagamenti), induce a ritenere la diffusione tutt'altro che isolata del fenomeno dell'abusivismo edilizio e della persistenza delle relative costruzioni, compiute nel periodo successivo al 31 ottobre 1983 (termine di riferimento dell'art. 31, legge n. 47 del 1985), fino alla nuova data di riferimento, 31 dicembre 1993. Cio' e' avvenuto non solo per il difetto di una attivita' di polizia locale specializzata sul controllo del tenitorio, ma anche in conseguenza della scarsa (o quasi nulla in talune regioni) incisivita' e tempestivita' dell'azione di controllo e di repressione degli enti locali e delle regioni, che non e' valsa ad impedire tempestivamente la suddetta attivita' abusiva o almeno a impedire il completamento e a rimuovere i relativi manufatti. Ben diversa sarebbe, invece, la situazione in caso di altra reiterazione di una norma del genere, soprattutto con ulteriore e persistente spostamento dei termini temporali di riferimento del commesso abusivismo edilizio. Conseguentemente differenti sarebbero i risultati della valutazlone sul piano della ragionevolezza, venendo meno il carattere contingente e del tutto eccezionale della norma (con le peculiari caratteristiche della singolarita' ed ulteriore irripetibilita) in relazione ai valori in gioco, non solo sotto il profilo della esigenza di repressione dei comportamenti che il legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilita' in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l'uomo. La gestione del territorio sulla base di una necessaria programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilita' di condono-sanatorla con conseguente convinzione di impunita' tanto piu' che l'abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora non segua la demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il semplice pagamento di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale». La ricorrente, regione e' dell'avviso che tale ben diversa situazione, ipotizzata da codesta Corte nella sentenza del 1995, si sia purtroppo verificata. Si deve, inoltre, aggiungere, prima dei motivi di diritto, una considerazione che mette ulteriormente in luce quale sia la considerazione che il legislatore statale ha delle esigenze della tutela del territorio. I commi 6, 9, 11 e 24 dell'art. 32 del d.l. n. 269/2003, come convertito, prevedevano il reperimento e la destinazione vincolata di risorse preordinata alla effettuazione di interventi di riqualificazione di nuclei edilizi ed urbani caratterizzati da abusivismo edilizio. Il comma 6, in particolare, destinava 10 milioni di euro per l'anno 2004 e 20 milioni dl euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006 al fine di concorrere alla partecipazione ad interventi e politiche di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di abusivismo, attivati dalla regione attraverso l'incremento della oblazione, secondo quanto disposto dal comma 33. Parimenti, al comma 9 del d.l. come convertito, erano previste risorse finanziarie per attivare un programma nazionale di interventi di riqualificazione delle aree per degrado economico-sociale (i cui ambiti di rilevanza ed interesse nazionale erano da individuarsi con decreti del Ministero per le infrastrutture, di concerto con i Ministri dell'ambiente e d'intesa con la conferenza unificata) e, ai successivi commi 11 e 24, rispettivamente per interventi di recupero e riqualificazione paesaggistica, nonche' per la valorizzazione e il miglioramento delle aree demaniali. Senonche' tali risorse finanziarie - gia' ritenute palesemente insufficienti dalle regioni - sono state completamente espunte dal testo legislativo ad opera della legge finanziaria 2004, che con il comma 70 dell'art. 2 ha abrogato seccamente i commi 6, 9, 11 e 24, del sopra citato art. 32 della legge n. 326/ 2003, con cio' cancellando dal sistema di reimpiego di parte dei fondi provenienti dal condono e dalla stessa ratio dell'art. 32, qualsivoglia concreta possibilita' di attuazione degli interventi di riqualificazione previsti, su un piano non certamente marginale, dalle misure di condono edilizio. Mentre ci si riserva, pertanto ogni argomentazione piu' esaustiva in sede di autonoma impugnazione della legge finanziaria, si rileva fin da subito, in questa sede, la irragionevolezza e la scarsa attendibilita' del meccanismo congegnato attraverso le varie disposizioni di cui all'art. 32, per realizzare finalita' di reale e credibile intento di riqualificazione del territorio. D i r i t t o 1. - Illegittimita' costituzionale dei commi 1, 2, 3, 25, 26, lett. a), in quanto dispongono il nuovo condono edilizio, per violazione dell'art. 117, commi 2 e 3. La presente impugnazione era stata presentata, prima della riforma costituzionale operata con la legge cost. n. 3 del 2001, con argomenti che conservano ad avviso della ricorrente regione tutta la loro validita'. Non si puo' tuttavia ora non considerare innanzi tutto gli effetti che la riforma costituzionale ha comportato per quanto riguarda il riparto di poteri legislativi ordinari tra lo Stato e le regioni. Nel nuovo quadro, infatti, il legislatore ordinario statale, pur godendo di una potesta' legislativa particolarmente ampia, e di una potesta' esclusiva nei fondamentali rami dell'ordinamento giuridico (quali l'ordinamento civile e penale e l'ordinamento processuale), non ha piu' tuttavia una competenza legislativa assolutamente generale. Occorre dunque in primo luogo considerare se la discpiplina introdotta dall'art. 32 del d.l. qui impugnato trova giustificazione nei titoli che fondano la competenza legislativa statale alla stregua dell'art. 117, comma secondo e terzo, Cost. Ad avviso della ricorrente regione la risposta e' negativa, come ora si cerchera' di illustrare. a) Impossibilita' di giustificare la normativa statale nel quadro della materia «governo del territorio». Non puo' essere dubbio che la normativa relativa al condono incide profondamente nella materia «governo del territorio». Va tuttavia ricordato che fu tale materia, come in tutte quelle assegnate alla potesta' concorrente dello Stato e delle regioni, a termini dell'art. 117, comma 3, Cost., la potesta' legislativa spetta alle regioni, «salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato». Ora sembra palese che la disciplina del condono edilizio non puo' essere considerata in nesessun senso «determinazione dei principi fondamentali» della materia. Al contrario, i principi fondamentali della materia sono sempre stati e tuttora sono quelli della disciplina edilizia del territorio, del controllo preventivo sulle edificazioni e della repressione dei comportamenti illeciti. Cio' del resto e' chiarissimo nella citata sentenza n. 416: il carattere della disciplina del condono e' «quello di norma del tutto eccezionale» in relazione a comportamenti «che il legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilita' in via amministrativa e penale». E' dunque evidente che non si tratta di esercizio della potesta' statale di porre i principi di materia, e che percio' l'intervento non puo' essere giustificato a questo titolo. Va precisato, infatti, che il potere statale di «determinazione dei principi» non comprende oggi, nel nuovo contesto costituzionale, il potere di disporre in via derogatoria di tali principi determinandone la non applicazione per classi determinate e concluse di comportamenti illeciti realizzati nel passato. Al contrario, si deve ad avviso della ricorrente regione ritenere che l'attribuzione allo Stato del compito e del potere di determinare i principi della materia «governo del territorio» sia correlato ad una esigenza positiva di assicurare che in tutte le regioni sia garantita una soglia predefinita di valori connessi al governo del territorio. Che tale sia il senso delle attribuzioni statali risulta talora piu' evidente nello stesso testo costituzionale, come accade ad esempio per la «tutela dell'ambiente» - che, si noti, non si limitata agli aspetti di speciale valore paesistico - di cui all'art. 117, comma secondo, lett. s); ma non puo' essere dubbio che tale e' anche il senso della attribuzione allo Stato di definire i principi in materia di governo del territorio. Che invece l'attivazione del condono sia in diretta contraddizione con tali valori e' del tutto evidente, solo che si consideri che la base del condono e' il puro scambio tra rinuncia alla salvaguardia di tali valori in cambio di una somma di denaro. Ma sul punto non vi e' bisogno di insistere, essendo il disvalore del condono gia' chiarissimo nella giurisprudenza costituzionale. b) Impossibilita' di giustificare la normativa statale come esercizio di potesta' legislativa nella materia del «coordinamento della finanza pubblica». L'art. 32 si colloca all'interno di un d.l. complessivamente intitolato Disposizioni urgenti per favorire lo sviliqipo e per la correzione dei conti pubblici. La finalita' complessivamente finanziaria dell'intervento smentisce completamente, da un lato, il presunto, scopo di «regolarizzazione del settore» proclamato dal comma 1 dell'art. 32, ma certamente costituisce uno scopo che lo Stato puo' e deve perseguire; cio' non toglie, pero', che lo debba perseguire nell'ambito dei poteri legislativi che la Costituzione riconosce al legislatore ordinario, e non al di fuori di tali poteri. Non c'e' dubbio, ad esempio, che il legislatore statale avrebbe potuto perseguire le proprie finalita' nel quadro della propria potesta' esclusiva in materia di sistema tributario dello Stato. Avrebbe potuto perseguire i propri scopi anche attravrso la potesta' concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica» di cui all'art. 117, comma terzo, dettando nuovi principi sul sistema tributario e finanziario delle regioni e degli enti locali come del resto l'art. 119 gli imporrebbe di fare. Sembra tuttavia evidente che neppure il riferimento a tale ultima materia conduce a soddisfare la ricerca di un fondamento costituzionale alla disciplina statale qui impugnata. Per ragioni analoghe a quelle sopra esposte va escluso che si tratti della posizione di principi di materia: i principi di «coordinamento della finanza pubblica» devono essere norme fondamentali che stabilmente disciplinano l'assetto finanziario pubblico, non certo norme eccezionali quali quelle sul condono; ne' d'altronde la posizione di principi in tale materia e' compatibile con il puro e semplice asservimento della materia urbanistica ed edilizia alle esigenze finanziarie. c) Impossibilita' di giustificare la normativa statale come esercizio di potesta' legislativa nella materia dell'ordinamento penale. Poiche' tra gli effetti del condono edilizio vi e' il venire meno della punibilita' penale in relazione agli illeciti commessi, va esaminata l'ipotesi che la potesta' esclusiva statale in tale materia possa costituire il fondamento giusilficativo dell'intera normativa sul condono edilizio. Si osserva, in primo luogo, che l'irrinuciabilita' del condono edilizio alla questione penale e' gia' stata affermata da codesta ecc.ma Corte costituzionale nel momento stesso in cui essa ha dichiarato ammissibile il ricorso regionale avverso l'art. 39 della legge n. 724 del 1994. In secondo luogo, va precisato che la ricorrente regione non contesta affatto l'esclusivita' del potere statale nel disporre del «potere di clemenza» in materia penale. Benche' sia certo, come statuito nella sentenza n. 369 del 1988, che il potere di clemenza puo' incontrare limiti costituzionali, non spetta alle regioni di farli valere. Cio' che si contesta, invece, e' che disponendo di cio' di cui lo Stato poteva - almeno in relazione alle prerogative costituzionali delle regioni - disporre, lo Stato abbia anche disposto di cio' di cui non poteva disporre, cioe' della sanzionabilita' in via amministrativa degli illeciti edilizi. In altre parole, circa lo scambio tra denaro e punibilita' penale la Regione Emilia-Romagna ritiene di non avere titolo ad interloquire: e cio' anche se il venire meno della sanzione penale determina una riduzione di tutela di valori costituzionali di cui anche le regioni sono responsabili. Spetta infatti allo Stato di decidere in quali casi la tutela dei valori debba essere guidata alla sanzione penale. La Regione contesta invece che all'esenzione dalla punibilita' penale possa o debba accompagnarsi l'accettazione del fatto compiuto sul terreno, specificamente regionale, dell'amministrazione dell'urbanistica, con il venire meno della sanzionabilita' amministrativa degli illeciti. Ne' si puo' dire che le due cose debbano necessariamente stare insieme, ne' dal punto di vista teorico ne' da quello pratico. Dal punto di vista teorico, e' chiaro che l'esenzione dalla punibilita' penale costituisce per i trasgressori un bene autonomo, distinto da ogni altro e particolarmente prezioso, data la gravosita' della pena sia in se' che nelle sue conseguenze generali. Dal punto di vista pratico, e' agevolmente immaginabile ed organizzabile un sistema che non comporti neppure sul piano operativo l'interferenza con il sistema delle sanzioni amministrative: ad esempio organizzando la presentazione delle domande di condono penale al di fuori del circuito dell'amministrazione locale, o sancendo l'inutilizzabilita' e l'irrilevanza di tali domande nell'ambito dei procedimenti amministrativi sanzionatori. Non puo' invece il legislatore statale ordinario decidere unilateralmente il sacrificio di quei valori del territorio che sarebbe suo compito costituzionale di tutelare e che le stesse regoni, nell'ambito dei propri poteri legislativi e quelli componenti della Repubblica ai sensi dell'art. 114 Cost., hanno il dovere di difendere. In conclusione, se ne' la potesta' del legislatore statale ordinario di fissare i principi del governo del territorio, ne' quella di fissare i principi di coordinamento della finanza pubblica, ne' infine l'esclusiva potesta' statale in materia penale giustificano sul piano costituzionale la normativa qui impugnata, se ne deve concludere che essa non poteva essere adottata dallo Stato mediante un atto avente valore di legge ordinaria. 2. - Illegittimita' costituzionale degli stessi commi 1, 2, 3, 25, 26 lett. a), in quanto dispongono il nuovo condono edilizio per violazione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza dell'art. 97, comma primo, nonche' degli artt. 117 e 118 Cost. Si e' data qui la precedenza alle ragioni di illegittimita' costituzionale della normativa impugnata collegati al nuovo riparto di poteri legislativi tra lo Stato e le regioni. Cio' non toglie, tuttavia che conservino piena validita' tutte le ragioni di doglianza gia' prospettate dalla ricorrente regione con il ricorso rivolto avverso il condono attivato dalla legge n. 724 del 1994: ragioni delle quali codesta stessa Corte costituzionale ebbe ad affermare, nella citata sentenza n. 416 del 1995, che - se pure non potevano accogliersi di fronte od una decisione statale che ancora poteva considerarsi contrassegnata dai caratteri di un eccezionale intervento, collegato non solo alle contingenti e temporanee esigenze finanziarie dello Stato, ma alla definitiva chiusura della vicenda dell'abusivismo edilizio - sarebbero state invece pienamente valide e necessariamente da accogliere nell'ipotesi «di altra reiterazione di una norma del genere, soprattutto con ulteriore e persistente spostamento dei termini temporali di riferimento del commesso abusivismo edilizio». Tuttavia, piu' che riproporre alla lettera quelle ragioni, conviene qui riproporre le parole stesse di codesta Corte costituzionale, gia' citate sopra nella Premessa. Nel caso di ulteriore reiterazzione, osserva ancora la sentenza n. 416, verrebbe meno «il carattere contingente e del tutto eccezionale della norma (con le peculiari caratteristiche della singolarita' ed ulteriore irripetibilita) in relazione ai valori in gioco, non solo sotto il profilo della esigenza di repressione dei comportamenti che il legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilita' in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l'uomo», con conseguente valutazione di irragionevolezza. Infatti prosegue la stessa sentenza, «la gestione del territorio sulla base di una necessaria programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilita' di condono-sanatoria con conseguente convinzione di impunibilita', tanto che l'abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora non seguo la demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il semplice pagamento di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale». Si tratta di considerazioni che, benche' espresse con riferimento al piano della ragionevoleza, sono agevolmente collegabili ad altri ed espliciti parametri costituzionali. Viene in rilievo, in primo luogo, il principio di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost., evidentemente frustato dalla inanita' della maggior parte degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali di reprimere l'abusivismo edilizio. Se e' vero che in taluni casi - ma non, si ritiene, se non marginalmente nei comuni della ricorrente regione - proprio l'inerzia delle amministrazioni puo' avere favorito gli abusi, cio' non toglie affatto che consentire indiscriminatamente la sanatoria dell'abuso vanifica ogni sforzo gia' presente ed ogni prospettiva futura (si rammenti che il carattere illecito della costruzione abusiva non viene meno per il solo decorso del tempo). Cio' tanto piu' e' vero se si considera che gli sforzi delle amministrazioni di colpire gli abusi richiedono di necessita' un tempo non breve per pervenire al risultato concreto, data l'esistenza delle irrinunciabili garanzie giurisdizionali: che da un lato doverosamente tutelano chi abusivo in realta' non sia, ma dall'altro non raramente consentono comunque di procrastinare nel tempo la sanzione. Viene poi in rilievo lo stesso principio di uguaglianza, leso da una normativa che da un lato ingiustamente uguaglia chi ha costruito in base ad un titolo legittimo e chi ha costruito abusivamente, dall'altro ingiustamente non consente di portare ad uguaglianza, attraverso la sanzione, chi si e' astenuto da comportamenti illeciti e chi illecitamente li ha compiuti. E' chiaro, poi che questi vizi si traducono in una lesione delle competenze costituzionali della regione, che - a causa del condono - vede illegittimamente frustrata la propria attivita' legislativa ed amministrativa di governo del territorio, in quanto gli abusi compiuti possono sfuggire alle sanzioni amministrative e si incentivano abusi futuri. 3. - Illegittimita' costituzionale degli stessi commi 1, 2, 3, 25, 26, lett. a), in quanto dispongono il nuovo condono edilizio, per violazione dell'art. 9 Cost. e del principio costituzionale di indisponibilita' di valori costituzionalmente tutelati. Ad avviso della ricorrente regione le violazioni segnalate al punto precedente si collegano ad una ulteriore e piu' profonda violazione del principio implicito nella Costituzione di non disponibilita' da parte del legislatore ordinario (non importa se statale o regionale), dei valori costituzionalmente tutelati. Che l'ordinario assetto del territorio sia un valore costituzionalmente tutelato non puo' essere messo in discussione, ed e' del resto evidente - oltre che nell'art. 9, comma 2, Cost. - nella stessa costruzione costituzionale del governo del territorio come autonoma materia di legislazione. Tale valore costituzionale non puo' essere scambiato con valori puramente finanziari. Il fatto che il sistema della finanza pubblica si trovi attualmente - ma in realta' da molti anni - in una situazione difficile non puo' costituire ragione che autorizzi lo Stato allo «scambio» tra illegalita' edilizia e prestazioni in danaro. Sia consentito ricordare alcune argomentazioni svolte nel ricorso avverso il condono del 1994. «Proprio la condizione disastrosa della finanza pubblica non puo' non avvisare della circostanza che, se tale scambio dovesse essere riconosciuto come costituzionalmente legittimo e consentito, ad esso fatalmente ed inevitabilmente si tornerebbe a ricorrere ogni volta che le stime di probabile gettito lo rendessero "consigliabile". In altre parole, ogni potenziale costruttore abusivo saprebbe bene che, poiche' il problema del disavanzo dello Stato non e' destinato a risolversi nella sua entita' fondamentale, ne' nel breve ne' nel medio periodo, ma semmai soltanto a trovare modi di progressivo "contenimento" ogni suo abuso sara' tollerato e in prospettiva persino gradito dato che cio' costituira' occasione per periodiche "contribuzioni" al bilancio statale. Ma basta enunciare tale prospettiva per rendere evidente come essa drasticamente ripugni ai valori costituzionali, trasformi l'imperativo della legalita' in una mera facolta' per chi voglia semplicemente vivere tranquillo, trasformi la tutela degli interessi pubblici e dei valori costituzionali cui lo Stato e' chiamato in un termine meramente economico, rimpiazzabile per veri o presunti equivalenti monetari secondo la necessita' dei governanti di trarre fondi dai governati senza loro troppo dispiacere». Come sottolinea la sentenza n. 416 del 1995, «il semplice pagamento di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo equivalente almeno approssimativo sul piano patrimonia1e». In questo senso, il condono edilizio non e' in nessun modo paragonabile ad altri condoni che pure comportino «clemenza» penale, quali i condoni fiscali, infatti se anche per questi si pone indubbiamente il problema del complessivo sovvertimento della legalita' e dell'incoraggiamento che da essi deriva a nuove illegalita', va pero' osservato che, nell'oggetto specifico, si tratta di una rinuncia ad una pretesa economica in vista di una diversa, e sia pure piu' ridotta, pretesa economica: sicche' la questione acquista, nel suo oggetto specifico, un connotato quasi di transazione ordinaria in relazione ad una lite patrimoniale. Il condono edilizio opera invece, anche nel suo oggetto specifico, su beni e interessi indisponibili e costituzionalmente tutelati della comunita'. Tali beni, costituzionalmente protetti sia direttamente in se stessi, sia indirettamente mediante un equilibrato riparto di competenze tra diversi livelli di responsabilita' territoriale, appartengono alla comunita' e non possono in linea di principio essere scambiati con «denaro» da nessun livello di governo, senza contraddire quella «gerarchia di valori» sottolineata proprio nella giurisprudenza costituzionale». Ne' oggi si puo' trovare una circostanza legittimante nella «eccezionalita» della disciplina del condono, ovviamente oramai venuta meno: non si potrebbe certamente ripetere oggi quanto affermava la sentenza n. 369 del 1988, quando rilevava come andasse «nettamente distinto, nella legge in esame "la legge n. 47 del 1985", cio' che attiene al futuro, nel quale il legislatore, nel riordinare la materia, non ammette in alcun modo sanatorie per le opere contrastanti con gli strumenti urbanistici da cio' che riguarda il passato». Non le vane promesse di ogni passeggero legislatore ordinario, ma soltanto il rispetto della Costituzione puo' garantire che in ogni momento presente, e non ogni volta in un lontano futuro, i valori costituzionali si realizzino nella vita sociale. Anche in relazione a questi vizi, e' chiaro che essi si traducono in una lesione delle competenze costituzionali della regione, che - a causa del condono - vede illegittimamente frustrata la propria attivita' legislativa ed amministativa di governo del territorio, nei termini gia' esposti al punto precedente. 4. In subordine: illegittimita' del comma 26, lett. a), in quanto subordina la sanabilita' alla legge regionale per gli abusi minori in zone non vincolate, sottraendo alla decisione regionale gli abusi maggiori e gli abusi minori in zone vincolate. Come gia' ricordato nella parte in fatto, il comma 26 determina la paradossale situazione per cui chi ha commesso abusi piu' gravi puo' senzaltro usufruire della possibilita' del condono, mentre chi ha commesso abusi meno gravi puo' usufruirne se le regioni lo prevedono. Sembra chiara la violazione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza (e mediatamente degli artt. 117 e 118 Cost., per la ripercussione di quei vizi sulle competenze regionali in materia di governo del territorio). La differenza e' verosimilmente da ricondurre - nelle intenzioni del legislatore - al fatto che, nel d.P.R. n. 380/2001, gli interventi di cui al comma 26 lett. b), sono soggetti solo a denuncia di inizio attivita' e non a permesso edilizio; ma tale differenza ha ripercussioni sul solo piano penalistico, mentre resta costituzionalmente inaccettabile che gli illeciti amministrativi piu' gravi siano senz'altro condonabili mentre quelli meno gravi non lo siano. Va precisato che ovviamente questa regione non impugna il comma 26, lett. b), ma il comma 26, lett. a) nella parte in cui non condiziona la sanabilita' dell'illecito amministrativo all'intervento di una legge regionale che lo preveda. Infatti, in relazione ai profili amministrativi dell'illecito urbanistico, non trova giustificazione la diretta sanabilita' degli interventi di cui alla lett. a) e l'eventuale sanabilita' degli interventi di cui alla lett. b), e la conformita' a Costituzione puo' essere ristabilita nel modo appena indicato. Sulla scindibilita' del profilo penale dal profilo dell'illecito amministrativo si richiama qui quanto gia' esposto al punto 1. 5. - In subordine: illegittimita' del comma 25, in quanto non eccettua dal condono gli abusi per i quali il procedimento sanzionatorio sia gia' iniziato. Anche nella denegata ipotesi che le censure sopra esposte non risultassero da condividere, la ricorrente regione ritiene che sarebbe comunque illegittimo che la disciplina qui impugnata non abbia escluso - dall'ambito di applicazione del condono - gli abusi per i quali il procedimento sanzionatorio sia gia' iniziato. E' chiaro, infatti, che in casi di questo tipo, la possibilita' di condono risulta ancora piu' irragionevole e maggiormente lesiva del principio di buon andamento dell'amministrazione: perche' quando il procedimento sanzionatorio e' gia' iniziato, il condono non arreca alcun vantaggio al pubblico interesse, ne' in termini di «uscita allo scoperto» di chi ha commesso l'abuso ne' in termini economici dato che spesso le sanzioni urbanistiche hanno carattere pecuniario. Si puo' ricordare che, nella sentenza n. 369 del 1988 di codesta Corte, si osservava che «il fondamento sostanziale dell'estinzione di cui all'art. 38, comma 2, legge n. 47 del 1985 va ricercato nella valutazione «positiva» che l'ordinamento compie dei comportamenti del reo, successivi al reato («autodenuncia» '..., pagamento dell'oblazione ecc.), che inducono a credere ad un sia pur parziale «ritorno» anche se non del tutto spontaneo, dell'agente alla «normalita» (punto 4 del diritto). Pare chiaro che, nei casi in cui il procedimento sanzionatorio sia gia' iniziato, il fondamento dell'estinzione dell'illecito (non solo di quello penale, ma anche di quello amministrativo) sparisce. Si tenga inoltre presente che, sia nella sentenza n. 369/1988 (punto 6 del Diritto) sia nella sentenza n. 416/1995 (punto 7 del Diritto) sia nella sentenza n. 427/1995 (punto 3 del Diritto) la Copte costituzionale ha dato rilievo, per giustificare il condono, all'inefficienza delle amministrazioni nel controllo sul territorio: inefficienza che non sussiste in relazione agli abusi per i quali sia in corso il procedimento sanzionatorio. Premiare chi ha violato le norme urbanistiche ed e' stato gia' «scoperto», dunque, e' profondamente irragionevole, vanifica l'attivita' gia' svolta dai comuni e disincentiva le future attivita' di repressione, dato il carattere ormai ciclico dei condoni (se anche questo fosse ritenuto legittimo). Anche tali vizi naturalmente, si traducono in una lesione delle competenze costituzionali della regione, che vede illegittimamente frustrata la propria attivita' legislativa ed amministrativa di governo del territorio. 6. - In subordine: illegittimita' costituzionale dei commi 3, 25, 26, lett. a), 28, 32, 35, lett. a) e b), 37, 38, 40 e Allegato 1, in quanto con disciplina dettagliata ed autoapplicativa stabiliscono le modalita', i termini e le procedure relative al condono edilizio. E' chiaro che l'accoglimento di una delle censure di cui ai nn. 1, 2 e 3 implicherebbe la non applicabilita' delle norme che disciplinano la procedura di condono (o, qualora codesta Corte lo ritenesse necessario, la dichiarazione della loro illegittimita' conseguenziale ex art. 27 legge n. 87/1953). Qualora, invece, in denegata ipotesi, si ritenesse che la previsione di un nuovo condono sia, per qualunque e qui imprevedibile ragione, legittima, si dovrebbe ad avviso della regione perlomeno ammettere l'illegittimita' di quelle norme di dettaglio che stabiliscono le modalita', i termini e le procedure relative al condono edilizio. Si fa riferimento, in particolare, alle norme (gia' individuate nella parte in fatto) di cui ai commi 28 (concernente i termini), 32 (concernente la presentazione della domanda), 35, lett. a) e b) (concernente la documentazione da allegare alla domanda), 37 (che prevede il meccanismo del silenzio-assenso), 38 (quanto meno nella parte in cui fa riferimento alla misura degli oneri concessori e delle relative modalita' di versamento) e 40 (concernente i diritti e gli oneri previsti per l'istruttoria della domanda di sanatoria). Nonostante quanto disposto dall'art. 32, comma 3 (secondo cui «le condizioni, i limiti e le modalita' del rilascio del predetto titolo abilitativo sono stabilite nel presente provvedimento e dalle normative regionali») e comma 33 (secondo cui «le regioni entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del presente provvedimento emanano norme per la definizione del procedimento amministrativo relativo al rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria»), la legge, cosi' come il d.l. disciplina il procedimento di condono con norme non cedevoli, dato che, in casi specifici (gia' ricordati nel fatto), prevede poteri di intervento regionali. Ora, la presenza di norme di dettaglio, per giunta non cedevoli potrebbe giustificarsi solo sulla base di una competenza statale esclusiva ma non si vede quale materia - fra quelle previste dall'art. 117, comma 2, Cost. - possa comprendere le norme sulle modalita' sui termini e sulle procedure relative al condono edilizio. Qualora, invece si ritenesse che, in virtu' dei commi 3 e 33, le norme di dettaglio di cui sopra siano cedevoli, esse sarebbero comunque illegittime. Si puo' ricordare che codesta Corte si e' gia' espressa sul punto, con un accenno nella sentenza n. 282/2002, punto 4 del diritto («La nuova formulazione dell'art. 117, comma 3, rispetto a quella previgente dell'art. 117, comma 1, esprime l'intento di una piu' netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina») e in modo piu' chiaro nella sentenza n. 303/2003, punto 16 del Diritto, dove si statuisce l'inammissibilita' di norme statali di dettaglio cedevoli, salvo il caso che cio' sia necessario per «assicurare l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettivita» («Non puo' negarsi che l'inversione della tecnica di riparto delle potesta' legislative e l'enumerazione tassativa delle competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere la possibilita' di dettare norme suppletive statali in materie di legislazione concorrente, e tuttavia una simile lettura dell'art. 117 svaluterebbe la portata precettiva dell'art. 118, comma primo, che consente l'attrazione allo Stato, per sussidiarieta' e adeguatezza delle funzioni amministrative e delle correlative funzioni legislative, come si e' gia' avuto modo di precisare. La disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata com'e' ad assicurare l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettivita»). Poiche' le norme impugnate non attraggono allo Stato ex art. 118, comma 1, tanto e' vero che attribuiscono la competenza ai comuni, le norme statali di dettaglio risultano, alla stregua dei principi enunciati, chiaramente illegittime. Si noti che, nel caso di specie, la lesivita' di una disciplina di dettaglio, seppure in ipotesi astrattamente cedevoli, e' particolarmente evidente: visto che le domande di condono devono essere presentate entro il 31 marzo 2004, ben poca utilita' avrebbe una legge regionale che intervenisse a disciplinare il relativo procedimento, dato che essa si applicherebbe solo alle domande non ancora presentate: con ulteriore disuguaglianza e violazione del principio di buon andamento dell'Amministrazione. Dunque se si legittima l'inserimento di norme di dettaglio cedevoli nelle leggi statali, si rischia di legittimare il completo esproprio della potesta' legislativa regionale, nel caso in cui l'applicazione dei nuovi principi statali sia destinata ad esaurirsi, per volonta' dello stesso legislatore stata1e, in breve tempo. Ne' pare possibile eccepire che, in casi come questi, e' l'urgenza di applicazione della legge statale a giustificare l'invasione della competenza regionale. A parte il fatto che proprio il caso che ci occupa dimostra come la valutazione di urgenza sia molto soggettiva, un equilibrato bilanciamento delle ipotetiche ragioni di urgenza e dell'autonomia regionale potrebbe giustificare, al massimo, che lo Stato detti una disciplina di dettaglio destinata ad operare qualora le regioni non si attivassero entra un certo termine, ma non certo una disciplina che immediatamente produca i suoi effetti, in pratica annullando qualsiasi margine d'azione regionale. Ne risulta confermata l'illegittimita' delle norme sopra indicate. 7. - In subordine: ulteriore illegittimita' dei commi 25 e 35 in quanto consentono di «far passare» per gia' costruite opere In corso costruzione o ancora da costruire. Violazione degli artt. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost. Il comma 25 dell'art. 32 estende il condono alle opere abusive ultimate entro il 31 marzo 2003: dunque, solo sei mesi prima della pubblicazione del decreto-legge (l'art 39 legge n. 724/1994 si applicava alle opere ultimate solo un anno prima, l'art. 31 legge n. 47/1985 alle opere ultimate diciassette mesi prima). Il comma 32 prevede che la domanda sia corredata dalla documentazione «di cui ai comma 35». Questo stabilisce che «la domanda di cui al comma 32 deve essere corredata dalla seguente documentazione: a) dichiarazione del richiedente resa ai sensi dell'art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, e successive modificazioni e integrazioni, con allegata documentazione fotografica, dalla quale risulti la descrizione delle opere per le quali si chiede il titolo abilitativo edilizio in sanatoria e lo stato del lavori relativo; b)qualora l'opera abusiva superi i 450 metri cubi, da una perizia giurata sulle dimensioni e sullo stato delle opere e una certificazione redatta da un tecnico abilitato all'esercizio della professione attestante l'idoneita' statica delle opere eseguite; c) ulteriore documentazione eventualmente prescritta con norma regionale». Ora, e' intuitivo, ed e' comprovato dall'esperienza del precedenti condoni, che, in assenza di norme rigorose sul punto, la possibilita' del condono fa sorgere la «tentazione» di «far passare» per gia' costruite opere in corso di costruzione o ancora da costruire. In altre parole, il condono, che ufficialmente e' rivolto ad eliminare la sanzionabiita' degli abusi passati, in realta' produce nuovi abusi presenti. I commi 25 e 35 contengono norme che non fanno nulla per evitare questa possibilita' e, anzi la favoriscono. In primis, la fissazione di un termine ad quem ravvicinato nel tempo rende piu' difficile se non impossibile distinguere le opere ultimate da quelle non ultimate, sia in relazione all'attivita' di vigilanza amministrativa (che ha avuto poco tempo per svolgersi) sia in relazione allo stato di degrado del materiali. Inoltre, il comma 35 si accontenta, in pratica, di un'autocertificazione per la prova dello «stato del lavori» solo «qualora l'opera abusiva superi i 450 metri cubi» si richiede «una perizia giurata sulle dimensioni e sullo stato delle opere» (che, a quanto pare, dovrebbe esser anch'essa redatta «da un tecnico abilitato all'esercizio della professione», anche se, letteralmente, il tecnico e' menzionato solo con riferimento alla cerlificazione sull'idoneita' statica). Ora, e' evidente che questa norma, collegata a quella che fissa il dies ad quem al 31 marzo 2003, rende concreta la possibilita' di «far passare» per gia' costruite opere che in quella data erano solo in corso di costruzione e, addirittura, si presta ad incoraggiare nuove costruzioni abusive e condonabili, data la difficolta' di verificare la veridicita' dell'autocertificazione. E' del tutto irragionevole una norma che fa affidamento sulla sincerita' di chi ha gia' commesso un abuso; le ragioni della buona amministrazione e della tutela dal territorio (e dunque gli art. 9, 97, 117 e 118 Cost.) non solo sono menomate dalla sanatoria delle opere realmente ultimate ma sono ulteriormente poste a repentaglio dalla possibilita', insita nelle norme di cui sopra, di perpetrare nuovi abusi e di farli condonare. Ne' si dica che l'amministrazione puo' dimostrare la non preesistenza dell'opera: perche' e' veramente chiedere una probatio diabolica pretendere che il comune sia in grado di dimostrare che un determinato manufatto edilizio non esisteva nel marzo 2003! Dunque, il comma 35 e' illegittimo nella parte in cui non prevede in tutti i casi la necessita' che il costruttore o il direttore del lavori attesti, sotto la propria responsabilita' anche penale, l'ultimazione del lavori alla data prevista. Se pure anche in questo modo non si potrebbe escludere la possibilita' di' falsi attestati, e' tuttavia evidente in primo luogo che una dichiarazione falsa nell'interesse di terzi e' meno probabile di una dichiarazione falsa nell'interesse proprio, e inoltre che, dovendo in questa ipotesi di regola la dichiarazione essere fatta da professionisti la perizia falsa rappresenterebbe un illecito particolarmente grave e dunque poco probabile. Dal canto suo, il comma 25 e' illegittimo, per violazione del medesimi parametri, nella parte in cui fissa il termine del 31 marzo 2003 anziche' uno piu' risalente, che potrebbe essere individuato considerando quale minimo intervallo ragionevole per la condonabilita' di abusi passati quello fissato a suo tempo dall'art. 31 legge n. 47/1985. 8. - In subordine: ulteriore illegittimita' del comma 37 in quanto prevede un meccanismo silenzio-assenso, Violazione delgi art. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost. Il comma 37 prevede che, avvenuti alcuni adempimenti, «il decorso del termine di ventiquattro mesi (dal 30 settembre 2004]... senza l'adozione di un provvedimento negativo del comune equivale a titolo abilitativo edilizio in sanatoria». Il decreto-legge n. 269/2003, dunque, prevede il meccanismo del silenzio-assenso in relazione alle domande di sanatoria, laddove tale istituto non e' contemplato neppure dalla disciplina generale del permesso edilizio (v. art. 20 d.P.R. n. 380/2001). Pare chiara l'irragionevolezza di una norma che consente la sanatoria degli abusi, con tutte le rilevanti conseguenze, in virtu' del solo decorso del tempo. Tale norma viola gli art. 9, 97, 117 e 118 Cost. perche' rende eventuale Il controllo del comuni sull'ammissibilita' delle domande di condono, ledendo ulteriormente le competenze regionali in materia di governo del territorio. La lesivita' dalla norma pare ulteriormente aggravata dal fatto che, nel caso di specie, non sembra applicabile la norma generale dell'art. 20 legge n. 241/1990, che attribuisce all'amministrazione, nei «casi» di cui al primo periodo dell'art. 20, comma 1, il potere di annullare l'atto di assenso illegittimamente formato. Ma, se anche si ritenesse che i comuni possano annullare le concessioni in sanatoria «sorte» in virtu' del silenzio protratto per il termine previsto, nell'esercizio di un potere generale di autotutela, la norma sarebbe comunque illegittima, perche' nel momento fra cui si decide di sanare, a certe condizioni, gli stravolgimenti operati abusivamente sul territorio, occorre che almeno le condizioni richieste siano verificate. E' del tutto irragionevole e discriminatorio assoggettare le domande di permesso che si riferiscono ad opere sicuramente abusive (perche' dichiarate tali dai richiedenti) ad un regime di verifica meno severo di quello vigente per le domande di permesso che vengono dichiarate dagli interessati conformi alla disciplina urbanistica. Ne' varrebbe obbiettare che, sul piano del fatto, il termine previsto e' sufficientemente lungo perche' i comuni si attivino, perche' proprio il numero delle domande che contemporaneamente vengono presentate ovviamente aggrava la situazione delle amministrazioni e ne prolunga i tempi di azione, come la stessa esperienza dei precedenti condoni ampiamente conferma. 9. - In subordine: ulteriore illegittimita' del comma 25, in quanto prevede un limite di volume per ogni singola richiesta. Violazione degli art. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost. L'art 32, comma 25, d.l. n. 269/2003, come gia' l'art. 39 legge n. 724/1994, prevede che siano sanabili le «nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 mc per ogni singola richiesta di titolo abilitativo edilizio In sanatoria». Ora, dopo la conversione, esso stabilisce che sono sanabili le opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria, «a condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3.000 metri cubi». Dunque, ora la disposizione pone un limite non solo in relazione alla singola opera da sanare ma anche in relazione alla costruzione complessiva. Resta, pero', la illegittimita' gia' denunciata con il ricorso n. 83/2003, in quanto la norma in questione appare irragionevole e lesiva dei parametri indicati in epigrafe nella parte in cui non precisa che non sono ammesse piu' richieste riferite alla medesima area: e' chiaro, infatti, che, anche alla luce di quanto previsto dall'art. 39 legge n. 724/1994, potrebbero essere stati costruiti edifici attigui, ognuno dei quali rispettoso del limite di volume sanabile, al fine di eludere il limite stesso. Cio' arrecherebbe un'ulteriore vulnus alle esigenze di tutela del territorio e alle relative competenze regionali. Poiche' gli emendamenti apportati al decreto-legge hanno efficacia solo per il futuro (v. art. 15 comma 5, legge n. 400/1988, che in realta' conferma il generale principio di irretroattivita), si censura qui specificamente l'art. 32, comma 25 nella sua versione originaria (che potrebbe essere gia' stato applicato, qualora una domanda di condono sia stata accolta prima dell'entrata in vigore della legge di conversione), in quanto non solo non precisa che non sono ammesse piu' richieste riferite alla medesima area, ma non pone neppure un limite di volume complessivo per la nuova costruzione abusiva: cosi' risultando ancora piu' irragionevole della norma introdotta dalla legge n. 326/2003 e maggiormente lesivo delle esigenze di tutela del territorio e delle relative competenze regionali. Tale norma, pur se efficace solo in relazione al periodo di vigenza del decreto-legge, e' stata «stabilizzata» dalla legge di conversione, che l'ha modificata solo per il futuro. 10. - In subordine: illegittimita' costituzionale del commi 1, 2, 3, 25, 26, lett. a) per mancato coinvolgimento delle autonomie regionali. A quanto risulta, ne' in sede di adozione del decreto legge ne' in sede di adozione del disegno di legge di conversione le autonomie regionali sono state consultate attraverso la Conferenza Stato-regioni. Poiche', come visto, la disciplina qui impugnata riguarda materie di competenza regionale, tale mancato coinvolgimento lede il principio di leale collaborazione, espressamente sancito ora nel Titolo V della Costituzione. In particolare, risulta violato l'art. 2, comma 3, decreto legislativo n. 287/1997, in base al quale «la conferenza Stato-regioni e' obbligatoriamente sentita in ordine agli schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamentato del Governo nelle materie di competenza delle regioni o delle province autonome di Trento e di Bolzano». Ne' si puo' obiettare che, nel caso di specie, la consultazione non era possibile, dato che l'art. 2, comma 3, decreto legislativo n. 281 disciplina espressamente i casi di urgenza: «quando il Presidente del Consiglio dei ministri dichiara che ragioni di urgenza non consentono la consultazione preventiva, la Conferenza Stato-regioni e consultata successivamente ed il Governo tiene conto dei suoi pareri: a) in sede di esame parlamentare dei disegni di legge o delle leggi di conversione dei decreti-legge». Dunque, la mancata consultazione della Conferenza risulta comunque illegittima. Si tenga presente, per comprendere l'importanza del principio di leale collaborazione nel nuovo titolo V, anche il modo in cui essa viene concretato dall'art. 11 legge n.3/2001. La circostanza che non sia ancora stata realizzata la speciale composizione integrata della Commissione parlamentare per le questioni regionali non toglie che il principio di partecipazione regionale al procedimento legislativo delle leggi statali ordinarie, quando queste intervengano in materia di conpetenza concorrente, ha ora espresso riconoscimento costituzionale. Del resto, e' da sottolineare che codesta Corte costituzionale gia' nella sent. n. 398 del 1998 (punto 16 del Diritto) ha annullato una norma legislativa statale incidente sulle competenze regionali per mancato coinvolgimento delle regioni nel procedimento legislativo.