Ricorso  della  Regione  Emilia-Romagna in persona del presidente
della  giunta  regionale  pro tempore, sig. Vasco Errani, autorizzato
con  deliberazione  della  giunta regionale n. 64 del 19 gennaio 2004
(doc.  1),  rappresentata e difesa, come da procura speciale a rogito
del  notaio  dott.  Federico  Stame  di Bologna, rep. n. 47915 del 19
gennaio 2004 (doc. 2), dal prof. avv. Giandomenico Falcon del foro di
Padova,  dal  prof.  avv.  Franco Mastragostino del foro di Bologna e
dall'avv.  Luigi  Manzi del foro di Roma, con domicillo eletto presso
lo studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5;

    Contro  Presidente del Consiglio di ministri per la dichiarazione
di  illegittimita'  costituzionale  della  legge  24  novembre  2003,
n. 326,  «Conversione  in legge, con modificazioni, del decreto-legge
30  settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire
lo  sviluppo  e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici»,
pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  n. 274 del 25 novembre 2003 -
supplemento  ordinario  n. 181,  nella  parte  in  cui  converte, con
modificazioni, i seguenti articoli:
        art. 21  (Assegno  per  ogni  secondo figlio e incremento del
fondo  nazionale  per  le  politiche  sociali)  per  violazione degli
artt. 3, 97, 117, 119 Cost.;
        art. 32,  comma  21  e  comma 22 (inerenti all'incremento dei
canoni  demaniali),  quest'ultimo  nel  testo sostituito dall'art. 2,
comma  53  della  legge  finanziaria  24  dicembre  2003, n. 350, per
violazione  degli  artt.  3  e  117  Cost.  del  principio  di  leale
collaborazione e del canone di ragionevolezza;
        art. 32  ed  in  particolare i commi: 1, 2, 3, 25 e 26, lett.
a),  in  quanto prevedono un nuovo condono edilizio; 25 in quanto non
eccettua   dal   condono  gli  abusi  per  i  quali  il  procedimento
sanzionatorio sia gia' iniziato; 26, lett. a), in quanto subordina la
sanabilita'  alla  legge  regionale  per gli abusi minori in zone non
vincolate,  sottraendo a questo regime gli abusi maggiori e gli abusi
minori  in  zone vincolate; 3, 25 26, lett. a), 28, 32, 35 lett. a) e
b), 37, 38 e 40 e allegato 1, in quanto, con disciplina dettagliata e
autoapplicativa,  stabiliscono le condizioni, le modalita', i termini
e  le  procedure  relative  al  condono  edilizio; 25 e 35, in quanto
consentono  di  «far  passare»  per  gia' costruite opere in corso di
costruzione   o  ancora  da  costruire;  37,  in  quanto  prevede  un
meccanismo  di  silenzio-assenso;  25, in quanto prevede un limite di
volume  per  ogni  singola  richiesta;  1,  2, 3, 25, 26 lett. a) per
mancato coinvolgimento delle regioni,
per  violazione  degli articoli 3, primo comma, 5, 9, 97 primo comma,
114  primo comma, 117 secondo comma, 117 terzo comma, 118 primo comma
Cost.  nonche'  del  principio di ragionevolezza, di indisponibilita'
dei  valori  costituzionalmente  tutelati  e  del  principio di leale
collaborazione tra lo Stato e le regioni.

                              F a t t o

    Con  la legge 24 novembre 2003, n. 326 pubblicata nel supplemento
ordinario della Gazzetta Ufficiale 25 novembre 2003, n. 274, e' stato
convertito,  con  modificazioni,  il decreto-legge 30 settembre 2003,
n. 269, con il quale lo Stato ha assunto misure «urgenti per favorire
lo  sviluppo  e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici»,
che,  al  di  la'  del  merito e della opportunita' e giustificazione
della  manovra,  contengono  alcune  disposizioni  sicuramente lesive
delle competenze regionali.
    Le  piu'  eclatanti,  per  ambito  e  portata di intervento, sono
quelle che riguardano la previsione di un nuovo condono edilizio, che
la  Regione  Emilia-Romagna  ha  gia'  impugnato, con ricorso avverso
l'art. 32  del decreto-legge n. 269/2003, che risulta pendente avanti
a  codesta  Corte  con il n. 83/2003. Poiche' la legge n. 326/2003 ha
convertito il d.l. lasciando nella sostanza inalterate quasi tutte le
disposizioni  censurate con il ricorso n. 83/2003, e' evidente che la
legge  sopracitata  e' affetta dai medesimi vizi di costituzionalita'
denunciati in relazione al decreto-legge.
    Sussistono,  inoltre, profili di illegittimita' costituzionale in
relazione   ad  altre  disposizioni  della  legge  n. 326/2003,  come
evidenziate  in epigrafe, che vengono impugnate per la prima volta in
questa sede.

                            D i r i t t o


                                  I

    Per  comodita'  di esposizione conviene prendere avvio dai motivi
di  impugnazione  che  si  formulano  per  la  prima volta avverso le
disposizioni della legge n. 326/2003.
    1.  -  Illegittimita'  costituzionale  dell'art.  21  della legge
n. 326/2001  (Assegno  per ogni secondo figlio e incremento del fondo
nazionale per le politiche sociali) per violazione degli artt. 3, 117
e 119 Cost.
    Per  ogni  figlio,  secondo od ulteriore, nato fra il 1° dicembre
2003  e  fino  al  31  dicembre  2004, o adottato, la disposizione in
questione  dispone  che  e' concesso un'assegno pari a 1000 euro. Per
tali finalita' e' istituita una speciale gestione presso l'INPS, fino
a  308  milioni di euro. L'assegno e' concesso dai comuni che, previa
informazione  agli  interessati,  provvedono  a  far  certificare  il
possesso  dei requisiti all'atto di iscrizione all'anagrafe dei nuovi
nati.  L'assegno  e'  comunque erogato dall'INPS, sulla base dei dati
forniti  dai comuni medesimi, secondo modalita' da definire con uno o
piu'  «decreti di natura non regolamentare» del Ministro del lavoro e
delle  politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e
delle finanze.
    Il  comma  6  prevede,  inoltre,  che «per il finanziamento delle
politiche  in  favore  delle  famiglie  il  Fondo  nazionale  per  le
politiche  sociali  di  cui  all'art. 59,  comma  44,  della legge 27
dicembre 1997, n. 449, a successive modificazioni, e' incrementato di
232 milioni di euro per l'anno 2004».
    Il comma 7 dispone che per «le finalita' del presente articolo e'
autorizzata  la spesa di 287 milioni di euro per l'anno 2003 e di 253
milioni  di  euro  per  l'anno  2004.  Al  relativo onere si provvede
mediante  corrispondente  riduzione  dello  stanziamento iscritto, ai
fini   del  bilancio  triennale  2003-2005,  nell'ambito  dell'unita'
previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale dello stato di
previsione  del  Ministero  dell'economia  e delle finanze per l'anno
2003,  allo  scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo
al   Ministero   del  lavoro  e  delle  politiche  sociali.».  Questa
disposizione  verra'  poi integrata da una norma ulteriore (che sara'
oggetto   di   impugnazione   separata   da   parte   della   Regione
Emilia-Romagna)  contenuta  nel  comma 116 dell'art. 3 della legge 27
dicembre  2003, n. 350 (legge finanziaria per il 2004), che specifica
gli interventi per i quali tale Fondo puo' essere utilizzato nel 2004
(politiche  per  la famiglia e in particolare per anziani e disabili;
abbattimento    delle    barriere    architettoniche;   servizi   per
l'integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap; servizi
per  la  prima  infanzia e scuole dell'infanzia, per i quali il comma
117 indica anche le procedure da seguire) e il relativo riparto delle
risorse.
    Non  vi  e' dubbio che gli interventi previsti dalle disposizioni
citate rientrano nella materia «servizi sociali», di sicura spettanza
della  regione.  Si  tratta,  infatti,  di  misure che attengono alla
programmazione   dell'assistenza   alla   famiglia  e  sono,  quindi,
coessenziali alla politica sociale. Con le disposizioni impugnate, lo
Stato  non  solo  decide  unilateralmente in quale direzione svolgere
l'intervento  pubblico  in  materia  di  sostegno  della famiglia, ma
istituisce,  incrementa  e disciplina un Fondo apposito del quale poi
continua liberamente a disporre selezionando le linee di impiego e la
relativa quantificazione della spesa.
    Non   occorre   entrare   in  valutazioni  di  merito  di  questi
interventi,  benche'  in  essi  appaiano  quantomeno contestabili sia
l'esclusione   dalle   provvidenze   delle   famiglie   di  cittadini
extracomunitari   regolarmente  soggiornanti  in  Italia  (esclusione
contraria  a  quei  «diritti  di  cittadinanza  posti tra i «Principi
generali  del  sistema  integrato  di  interventi  e servizi sociali»
dall'art. 1,  e ribaditi dall'art. 2, comma 1, della legge 8 novembre
2000,  n. 328  -  legge  quadro  per  la  realizzazione  del  sistema
integrato  di  interventi  e  servizi  sociali),  sia  l'attribuzione
indistinta  dell'assegno,  in  cui  non  si tengono in alcun conto le
condizioni  sociali ed economiche dei beneficiari, con la conseguenza
che viene a mancare un elemento di equita' e di giustizia sociale (in
violazione  del  principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. e
chiaramente specificato dall'art. 2, comma 3, della legge quadro).
    Queste  considerazioni  costituiscono  gia'  di  per se' autonome
censure  di  costituzionalita' e si affiancano a quelle che dal punto
di  vista  della  lesione delle competenze della ricorrente regione -
sono  le  fondamentali  censure  di  violazione degli artt. 117 e 119
Cost.
    La  violazione dell'art. 117 Cost. e' resa evidente dal fatto che
gli  interventi  di  sostegno  della  famiglia,  come  pure gli altri
interventi  sostenuti  dal  Fondo nazionale per le politiche sociali,
cosi'  come  articolati  e specificati dalla citata norma delle legge
finanziaria  2004,  rientrano  tutti nella materia «servizi sociali».
Gia'  il  capo  II  del  titolo  IV del decreto leg. n. 112/1998, del
resto,  aveva definito con estensione la materia, come comprensiva di
«tutte  le  attivita'  relative alla predisposizione ed erogazione di
servizi,  gratuiti  ed  a  pagamento,  o  di  prestazioni  economiche
destinate  a  rimuovere  e  superare  le  situazioni  di bisogno e di
difficolta'  che  la persona umana incontra nel corso della sua vita,
escluse  soltanto  quelle  assicurate  dal sistema previdenziale e da
quello    sanitario,   nonche'   quelle   assicurate   in   sede   di
amministrazione  della  giustizia»  (art.  128,  comma  2, richiamato
dall'art. 1,  comma  2,  della  citata  legge quadro). E' vero che la
recente   giurisprudenza   di  codesta  Corte  ha  spesso  richiamato
l'attenzione  sulla  necessita' di tenere in considerazione gli altri
interessi  che  possono  convergere nella disciplina di una materia e
attrarne  la  competenza  ad  un  livello  diverso, anche in nome del
principio di sussidiarieta' e di adeguatezza, ma e' altresi' vero che
per  l'erogazione  di provvidenze a favore delle famiglie (quanto per
gli  altri  interventi  previsti  a  carico  del Fondo nazionale) non
sembrano  in  alcun modo invocabili interessi (come quelli in materia
previdenziale,  i  profili professionali o l'assistenza temporanea ai
profughi,  per  esempio)  che  giustifichino l'intervento unilaterale
dello  Stato.  Lo comprova il fatto che gia' il conferimento disposto
dal  d.lgs. n. 112/1998 prevedeva espressamente (art. 132, lett. d) i
servizi  sociali  diretti  alla  famiglia  come  oggetto specifico di
competenza  legislativa  delle  regioni,  cui  era  fatto  obbligo di
conferire  le relative funzioni amministrative ai comuni e agli altri
enti locali.
    D'altra  parte,  non  appare in alcun modo invocabile la potesta'
che  lo  Stato puo' esercitare in via esclusiva per la determinazione
dei  livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma 2, lettera
m). Tale potesta' consente allo Stato di emanare le «norma necessarie
per   assicurare   a  tutti,  sull'intero  territorio  nazionale,  il
godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali
diritti,  senza  che  la  legislazione  regionale  possa  limitarle o
condizionarle»  (sent.  n. 282/2002), attribuendogli «un fondamentale
strumento  per  garantire il mantenimento di una adeguata uniformita'
di  trattamento  sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un
sistema  caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale
decisamente  accresciuto»  (sent. n. 88/2003). Viceversa, risulta con
tutta  evidenza  che  la  normativa impugnata non determina affatto i
livelli  delle  prestazioni che devono essere garantite uniformemente
dalle  regioni  e  dagli  enti  locali. Ci si trova in questo caso in
situazione  analoga  a  quella  decisa  da codesta Corte con la sent.
n. 370/2003,  a  proposito dell'art. 70 della legge finanziaria 2002;
come  in quel caso (che riguardava finanziamenti per gli asili nido),
anche   la   disposizione   ora   impugnata   «non   ha   affatto  le
caratteristiche sostanziali e formali che potrebbero farlo annoverare
fra  gli  atti  espressivi  di  questo  potere  di  predeterminazione
normativa  dei livelli essenziali, e per di piu' non vi sono «titoli»
diversi  in  nome  dei  quali  lo  Stato  possa  attrarre  a  se'  la
disciplina,  delegando  i  comuni  ad attivita' di tipo istruttorio e
pretermettendo totalmente le regioni.
    Nella  norma  impugnata viene persino esclusa qualsiasi procedura
di   coinvolgimento   delle   regioni   nella   programmazione  degli
interventi,   come   sarebbe  viceversa  d'obbligo,  per  consolidata
opinione  espressa  da codesta Corte, quando lo Stato intervenisse in
materie  di competenza regionale in nome della tutela delle «esigenze
unitarie»  (cfr.  sentt.  88/2003,  303/2003, 6/2004), o quando ci si
trovasse  di  fronte a competenze necessariamente e inestricabilmente
connesse  (sentt. 422/2002, 308/2003), ipotesi che pero' nel presente
caso    non   ricorrono   affatto.   Oltretutto,   dalla   concezione
«centralistica»  degli  intereventi  a favore delle famiglie discende
anche  una  grave  distorsione:  proprio  la  circostanza che siano i
comuni  a  condurre  l'istruttoria  -  la  quale prende avvio solo se
previamente   siano   stati   informati   gli  interessati  e  previo
accertamento   del   possesso   dei  requisiti,  come  risultanti  da
dichiarazioni dell'interessato all'anagrafe - fa emergere un problema
di  diversificazione  della  concreta  applicazione  della  misura  a
seconda  dell'efficienza  e organizzazione che il singolo ente locale
sara'  in grado di assicurare e non in ragione dello stato di bisogno
delle  famiglie  e  delle condizioni di denatalita' che si verificano
nelle specifiche realta' locali.
    Una  programmazione  degli  interventi  fondata  sulle competenze
delle  Regioni  (le  quali,  come  stabiliva  -  prima  della riforma
costituzionale  del titolo V - l'art. 4, comma 3, della legge quadro,
«provvedono alla ripartizione dei finanziamenti assegnati dallo Stato
per obiettivi ed interventi di settore, nonche' in forma sussidiaria,
a   cofinanziare   interventi   e   servizi   sociali  derivanti  dai
provvedimenti  regionali  di  trasferimento  agli  enti  locali delle
materie individuate dal citato art. 132») e delle autonomie locali (a
cui,  infatti,  gia'  l'art. 131,  comma 2,  del  d.lgs.  n. 112/1998
attribuiva  il  compito di erogare i servizi e le prestazioni sociali
progettandoli in modo coordinato «in rete») avrebbe assicurato, oltre
ad   un  maggiore  rispetto  delle  disposizioni  costituzionali,  la
chiarezza  e  ragionevolezza dell'intervento e con cio', in sostanza,
l'equita' nella distribuzione del premio.
    Al contrario, le disposizioni impugnate, nel prevedere interventi
di  questo  tipo  decisi  dal  centro,  operano non in attuazione del
principio  di  sussidiarieta',  ma  contro  di  esso, non in nome, ma
contro  i  principi  costituzionali  di eguaglianza e di solidarieta'
sociale  con i soggetti in stato di bisogno, non in nome, ma contro i
principi   di  «programmazione  degli  interventi  e  delle  risorse,
dell'operativita'   per  progetti,  della  verifica  sistematica  dei
risultati  in  termini  di qualita' e di efficacia delle prestazioni,
nonche'  della  valutazione  di  impatto di genere» (art. 3, comma 1,
della  legge  quadro).  La  norma impugnata costituisce, inoltre, una
macroscopica  violazione  dell'art.  119 Cost. Come la Corte ha avuto
modo di sottolineare nella gia' richiamata sent. 370/2003, «nel nuovo
sistema,  per  il  finanziamento delle normali funzioni di regioni ed
enti locali, lo Stato puo' erogare solo fondi senza vincoli specifici
di  destinazione  in  particolare tramite il fondo perequativo di cui
all'art. 119,  terzo  comma,  della  Costituzione».  Il meccanismo di
finanziamento  delineato  dalla norma censurata, che gia' non sarebbe
stato  coerente con il precedente assetto legislativo (infatti l'art.
129,  lett. e)  del  d.lgs. n. 112/1998 e l'art. 9, comma 1, lett. f)
della  legge  quadro prevedevano che lo Stato ripartisse il Fondo tra
le  regioni,  e  non  che  ne  disponesse  direttamente), non e' piu'
utilizzabile a seguito dei rilevanti mutamenti introdotti dalla legge
costituzionale  18 ottobre  2001,  n. 3  (Modifiche al titolo V della
seconda   parte   della   Costituzione).  «Il  nuovo  art. 119  della
Costituzione  -  afferma  la sent. n. 370 - prevede espressamente, al
quarto  comma,  che  le funzioni pubbliche regionali e locali debbano
essere  «integralmente»  finanziate  tramite i proventi delle entrate
proprie  e  la  compartecipazione  al  gettito  dei  tributi erariali
riferibili  al  territorio  dell'ente  interessato, di cui al secondo
comma,  nonche'  con  quote  del  «fondo perequativo senza vincoli di
destinazione»,   di   cui   al   terzo  comma.  Gli  altri  possibili
finanziamenti  da  parte dello Stato, previsti dal quinto comma, sono
costituiti solo da risorse eventuali ed aggiuntive «per promuovere lo
sviluppo  economico,  la  coesione  e  la  solidarieta'  sociale, per
rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo
esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi
dal  normale  esercizio  delle  funzioni  ed  erogati  in  favore «di
determinati comuni, province, citta' metropolitane e regioni».
    Dal  momento  che  l'attivita'  dello  speciale servizio pubblico
costituito   dagli   interventi   a  favore  della  famiglia  rientra
palesemente  nella sfera delle funzioni proprie delle regioni e degli
enti  locali,  non  si  puo'  che  concludere  che «e' contraria alla
disciplina  costituzionale  vigente  la  configurazione  di  un fondo
settoriale  di  finanziamento  gestito dallo Stato, che viola in modo
palese  l'autonomia  finanziaria  sia  di  entrata che di spesa delle
regioni  e  degli  enti  locali  e  mantiene allo Stato alcuni poteri
discrezionali   nella   materia   cui  si  riferisce»  (ancora  sent.
n. 370/2003).
    Ne  risulta percio' l'illegittimita' non solo del singolo atto di
disposizione   del   Fondo,   come   quello  contenuto  nell'articolo
impugnato,  ma  della  stessa previsione di un Fondo nazionale per le
politiche  sociali,  che non appare piu' compatibile con il novellato
art.  119  Cost.  Ne' puo' essere invocata la perdurante inattuazione
dell'art.   119:   a  parte  che  «la  permanenza  o  addirittura  la
istituzione  di  forme  di  finanziamento  delle regioni e degli enti
locali  contraddittorie  con  l'art. 119  della Costituzione espone a
rischi  di  cattiva  funzionalita'  o addirittura di blocco di interi
ambiti settoriali» (sent. n. 370/2003), codesta Corte ha sottolineato
che  «fin  d'ora  lo  Stato puo' e deve agire in conformita' al nuovo
riparto di competenze e alle nuove regole, disponendo i trasferimenti
senza  vincoli  di  destinazione  specifica, o, se del caso, passando
attraverso  il filtro dei programmi regionali, coinvolgendo dunque le
regioni interessate nei processi decisionali concernenti il riparto e
la  destinazione  dei  fondi,  e  rispettando altresi' l'autonomia di
spesa  degli  enti  locali»  (sent.  n. 16/2004).  Da  questi  canoni
l'impugnato art. 21 si discosta con irrimediabile evidenza.
    2.  -  Illegittimita'  costituzionale dell'art 32, commi 21 e 22,
per  violazione  degli  artt.  3 e 117 Cost. e del principio di leale
collaborazione,  nonche'  del canone di ragionevolezza. I commi sopra
citati  concernono  l'aumento dei canoni per le concessioni d'uso del
demanio  marittimo  per  finalita' turistico-ricreative, di cui viene
tout court disposto l'incremento del trecento per cento.
    La   successiva  legge  finanziaria  ha  modificato  il  comma 22
stabilendo che l'aumento e' fissato con un decreto interministeriale,
da  emanarsi entro il 30 giugno 2004, al quale e' fissato, come unico
parametro   o   indirizzo,   l'obiettivo  finanziario  di  assicurare
«maggiori entrate non inferiori a 140 milioni di euro a decorrere dal
1°  gennaio  2004»:  decorso  il  termine  per  l'emanazione  di tale
decreto,     scatta    automaticamente    e    retroattivamente    la
quadruplicazione del canone.
    Come  e'  noto,  tutte  le  funzioni amministrative inerenti allo
sfruttamento per finalita' turistico-ricreative del demanio marittimo
sono state conferite alle regioni a far tempo dal d.lgs. n. 112/1998.
In precedenza erano state delegate alle regioni gia' dall'art. 59 del
d.P.R.   n. 616/1977,   in  considerazione  della  stretta  attinenza
dell'esercizio  delle  funzioni  concessorie con la materia turismo e
attivita'  ricreative.  In  effetti, in molte regioni, e segnatamente
nell'Emilia-Romagna,  il  demanio marittimo rappresenta un fattore di
enorme importanza per la politica e l'economia del turismo.
    Con  la  presente impugnazione la regione non contesta il diritto
dominicale  dello  Stato di fissare un canone per l'utilizzo dei suoi
beni  demaniali.  Essa contesta invece la legittimita' costituzionale
della  misura,  del  metodo  e della forma con cui l'aumento e' stato
deciso,  in  quanto  tale  illegittimita'  costituzione  comporta una
lesione delle competenze regionali nella materia del turismo.
    Quanto   alla  misura,  non  puo'  non  essere  rilevato  che  la
quadruplicazione  del  canone  e'  contemporaneamente:  un intervento
dagli  effetti  assai  gravi per la totalita' delle imprese balneari;
una misura discriminatoria rispetto agli altri canoni; non fondata su
specifiche  considerazioni  di  fatto  e  sul  livello dei precedenti
canoni.
    Va  rilevato  che  i canoni erano stati fissati con il d.m n. 342
del  1998,  per  cui, dato l'andamento contenuto dell'inflazione, non
rappresentavano  certo  evidenti  anacronismi  rispetto  alla attuale
realta'   economico-finanziaria   tanto   piu'   che   l'art.  4  del
decreto-legge  n. 400/1993  prevede che «i canoni annui relativi alle
concessioni  demaniali  marittime  sono  aggiornati  annualmente, con
decreto  del Ministro della marina mercantile, sulla base della media
degli  indici  determinati  dall'ISTAT».  E' singolare che proprio su
questa unica categoria di canoni si sia percio' concentrata la rapace
attenzione  del  Tesoro, trascurando ben altri e piu' lucrosi settori
in  cui  i beni pubblici sono sfruttati per produrre reddito a favore
degli  operatori  privati;  per  lo  stesso  sfruttamento del demanio
marittimo il provvedimento crea un'ingiustificata discriminazione tra
gli  imprenditori  turistici e le altre categorie di imprenditori che
usano il demanio per finalita' non turistiche.
    Come detto, non si contesta il potere del Governo di valutare per
quali  categorie  di  beni  pubblici  sia conveniente e in che misura
elevare  i  canoni  dell'utilizzazione  privata;  ma  e' evidente che
queste  valutazioni non possono prescindere dal rispetto del consueti
criteri  di  ragionevolezza,  congruita'  e  giustizia.  Va, infatti,
considerato  anche  che  l'art. 1,  comma 2, del citato decreto-legge
n. 400/1993   fissa   in   sei  anni  la  durata  delle  concessioni,
indipendentemente dalla natura o dal tipo degli impianti previsti per
lo  svolgimento  delle  attivita';  alla  scadenza  le concessioni si
rinnovano  automaticamente per altri sei anni e cosi' successivamente
ad  ogni scadenza. La ratio di queste disposizioni, di evidente favor
per gli operatori turistici, e' di incentivare gli investimenti nelle
aree   demaniali   a   vocazione  turistica  dando  la  sicurezza  di
continuita' agli imprenditori di settore.
    I  vizi  di  legittimita'  cosi' denunciati incidono direttamente
sugli  interessi  della regione e ne compromettono le attribuzioni in
materia  turistica.  La  forte  incidenza  del  fattore fiscale sulla
operativita'  delle imprese turistiche, infatti, compromette l'azione
promozionale,   di  programmazione  e  di  sviluppo  che  la  Regione
Emilia-Romagna  ha  esercitato  in un settore fondamentale per il suo
sviluppo  economico. Inoltre, un aumento cosi' esorbitante del canone
di  concessione  comprime  le  risorse  degli  imprenditori turistici
impedendo  loro  di  intraprendere  gli  investimenti  necessari  per
restare  competitivi  in  un settore che e' ormai diventato altamente
concorrenziale,  e  gravemente  riduce  la  possibilita'  per essi di
proseguire  in  quelle  opere  e iniziative che tradizionalmente sono
state  dirette ad interessi pubblici quali la sicurezza degli utenti,
la tutela ambientale, ecc.
    Inoltre,   per   la   stessa  regione,  di  conseguenza,  diventa
impossibile  qualsiasi  aggiornamento  dei propri diritti di imposta,
attualmente  prevista  e disciplinata dalla legge regionale 31 maggio
2002,   n. 9,  attraverso  i  quali  e'  stato  possibile  finanziare
l'esercizio  delle  funzioni  amministrative  (di  rilascio, rinnovo,
modifica   delle   concessioni   demaniali   marittime   a  finalita'
turistico-ricreative,  di  quelle  inerenti  ai  porti  di  interesse
regionale  e  sub-regionale ed inerenti ad esercizio del commercio su
aree  demaniali)  in  larga  parte delegate agli enti locali. Risulti
evidente la sproporzione tra i diritti derivanti dalla mera e passiva
proprieta'  dei  beni  demaniali  e  i  diritti derivanti dall'attivo
esercizio di importanti funzioni amministrative, legate allo sviluppo
economico, alla sicurezza, alla tutela ambientale.
    Quanto al metodo, va rilevato che il d.l. n. 400/1993, cosi' come
convertito  dalla  legge n. 494/1993, aveva correttamente considerato
lo  stretto  legame  che  deve  sussistere  fra la determinazione dei
diritti  spettanti  al  proprietario  e  gli  interessi  dei soggetti
chiamati  ad amministrare tali beni a fini turistici e a disciplinare
la  materia:  infatti,  veniva prevista dall'art. 3 del decreto-legge
che    «i    canoni    annui    per    concessioni    con   finalita'
turistico-ricreative   di  aree,  pertinenze  demaniali  marittime  e
specchi acquei per i quali si applicano le disposizioni relative alle
utilizzazioni del demanio marittimo sono determinati, a decorrere dal
1°  gennaio  1994,  con decreto del Ministro della marina mercantile,
emanato sentita la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato,
le  regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano». Di questo
indispensabile  passaggio  procedurale  si e' invece persa la traccia
sia  nei  commi 21 e 22 del decreto-legge impugnato, sia nel comma 53
dell'art. 2 della legge finanziaria, nonostante fosse stato esplicito
l'invito    formulato    alla   Camera   dei   deputati   nel   corso
dell'approvazione  della  legge  di  conversione  (si  veda  l'o.d.g.
presentato dall'on. La Malfa il 19 novembre 2003).
    La    deliberata   esclusione   del   parere   della   Conferenza
Stato-Regione  si riverbera percio' nella violazione del principio di
leale  collaborazione  che, come la costante giurisprudenza di questa
Corte  ha sottolineato, rappresenta l'ineliminabile onere procedurale
che  deve  essere  assolto  da  tutti i provvedimenti che incidono su
«materie»  in  cui  gli  interessi  dello  Stato  convergono e devono
armonizzarsi con quelli delle Regioni.
    Quanto alla forma, infine, la scarsa coerenza tra i commi 21 e 22
dell'articolo   impugnato  e'  stata  ulteriormente  aggravata  dalla
riforma  introdotta  dalla  successiva legge finanziaria. Persino nei
lavori  parlamentari (si veda ancora l'o.d.g. La Malfa) non risultava
affatto  chiara  la  portata  dei  due  commi,  sembrando addirittura
possibile   un'interpretazione   per   cui   essi   prevedessero  due
provvedimenti  diversi,  il  comma  21,  ma non il 22, riguardando le
concessioni  a  finalita'  turistico-ricreative.  Ogni  invito  delle
Camere a riconsiderare la questione e a chiarire il testo legislativo
(si  veda  l'o.d.g.  9/4447/96  proposto  dall'on. Cazzaro, approvato
dalla Camera dei deputati e accettato dal Governo) e' stato disatteso
dato che la modifica introdotta dalla legge finanziaria non chiarisce
affatto i rapporti tra i due commi, ne' introduce il doveroso obbligo
delle autorita' ministeriali di sottoporre il provvedimento al previo
parere della Conferenza Stato-regioni.
    Per   tutti  gli  enunciati  profili  le  disposizioni  impugnate
risultano lesive delle attribuzioni regionali garantite dall'art. 117
Cost.,  del  principio  di  leale  collaborazione,  del  principio di
eguaglianza  sancito dall'art. 3 Cost., del principio di certezza del
diritto e del generale canone di ragionevolezza delle leggi.
    Si  ripropongono,  ora,  i  motivi di impugnazione riguardanti il
corpus  di  disposizioni  inerenti al condono edilizio, contenuti nel
ricorso  n. 83/2003 promosso avverso il decreto-legge n. 269/2003, di
cui  si  reputa  opportuno  riprodurre  integralmente  (in  carattere
corsivo)  le argomentazioni gia' espresse, in quanto mantengono tutta
la  loro  validita'  anche in relazione alla legge di conversione del
decreto-legge. Alcune brevi integrazioni, relative a norme introdotte
dopo il decreto-legge, sono evidenziate dal carattere tondo.

                              F a t t o

    Lo «storico» condono edilizio fu infrodotto dalla legge n. 47 del
1985,  come  evento assolutamente eccezionale e correlato a rilevanti
innovazioni  nella  disciplina  edilizia.  A distanza di nove anni la
legge  n. 724  del  1994  riapri'  i  termini  del condono. Ed ora, a
distanza  ancora di nove anni, l'art. 32 del decreto-legge n. 269 del
2003  prevede  un  nuovo condono, riprendendo con modifiche le regole
sostanziali  e  procedurali  del  1985  e  del  1994.  L'art.  32 del
decreto-legge,  che contiene la normativa qui impugnata e' intitolato
Misure    per   la   riqualificazione   urbanistica,   ambientale   e
paesaggistica,  per  l'incentivazione  dell'attivita'  di repressione
dell'abusivismo edilizio, nonche' per la definizione degli illeciti e
delle occupazioni di aree demaniali. Il comma 1 dichiara la finalita'
di «pervenire alla regolarizzazione del settore». Il comma 2 dichiara
altresi'  che  «la  normativa e' disposta nelle more dell'adeguamento
della   disciplina   regionale  al  testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con d.P.R.
6  giugno 2001, n. 380, in conformita' al titolo V della Costituzione
come  modificato  dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3» e
che  sono  «comunque fatte salve le competenze delle autonomie locali
sul governo del territorio». Il comma 3 precisa che «le condizioni, i
limiti  e  le  modalita' del rilascio del predetto titolo abilitativo
sono stabilite dal presente articolo e dalle normative regionali». In
questi  termini, pur se talune delle citate formulazioni non sembrano
davvero  perspicue  -  come quella che non si sa a quali fini precisa
trattarsi  di  una  normativa adottata «nelle more» di un adeguamento
che tra l'altro per la Regione Emilia-Romagna e' gia' avvenuto con la
legge  regionale  25  novembre 2002, n. 31 (mod. con l.r. 19 dicembre
2002,  n. 37) - l'intitolazione dell'articolo e i primi commi possono
dare  l'impressione  di  una  normativa  «positiva», o comunque - per
quanto riguarda piu' strettamente il condono - di una normativa messa
a  disposizione  delle  regioni  e  delle  autonomie  locali  come un
principio  facoltizzante,  secondo  cui  la  legislazione  statale ha
materia  di «governo del territorio» autorizzerebbe le regioni che lo
ritenessero   a  permettere  ai  propri  enti  locali  di  rilasciare
concessioni  in sanatoria entro i limiti fissati in primo luogo dalle
stesse  seguenti  disposizioni  dell'art. 32,  in secondo luogo dalle
leggi  delle  singole  regioni. Se cosi' fosse, il condono introdotto
dall'art. 32 si presterebbe pur sempre ad obiezioni di legittimita' e
merito  -  non sembrando davvero consono alle ragioni di garanzia che
presiedono al riconoscimento di una legislazione statale di principio
in  materia  di  governo  del  territorio la fissazione di regole che
consentono  invece  il «non governo» o addritttura il malgoverno - ma
almeno nessuna comunita' regionale si vedrebbe costretta ad accettare
la  sanzione  definitiva di quanto di urbanisticamente disordinato ed
irregolare  possa  essere  accaduto negli ultimi anni. Sennonche', il
carattere  rispettoso,  se non del territorio, almeno delle autonomie
territoriali   si   rivela  esso  stesso  pura  apparenza  quando  si
considerino  le  rimanenti  disposizioni  dell'art. 32,  dalle  quali
emergono  invece  i  tratti  inconfondibili  del  vecchio  e classico
condono,  nella  stessa  versione  della legge n. 47 del 1985 e della
legge  n. 724  del  1994:  insomma,  del  «solito»  condono,  che  si
prospetta  cosi'  come  evento  ciclico  e  ricorrente  della  storia
italiana.
    Sommando tutti i periodi ne risulta che - tranne le eccezioni per
le  zone soggette a particolari vincoli - chiunque negli ultimi venti
anni   abbia  effettuato  opere  edilizie  ha  spregio  delle  regole
sostanziali  e  formali  di governo del territorio ha potuto o potra'
trarre   vantaggio   dal   proprio   illecito,   senza   che   alcuna
considerazione   urbanistica   possa   essergli  opposta,  alla  sola
condizione  di  versare  allo Stato una somma di danaro. E che coloro
che  al  contrario hanno rinunciato ad opere che pure sarebbero state
per  loro  vantaggiose  in  ossequio  alla  normativa  urbanistica  o
nell'attesa  di  regolari  permessi  avranno  una  nuova  ragione  di
chiedersi - se davvero le regole sono queste - se non avrebbero fatto
meglio in passato e non faranno meglio in futuro, a violare anch'essi
le norme.
    In  effetti, la «vera» disciplina del nuovo condono inizia con il
comma  25,  che stabilisce che «le disposizioni di cui ai capi IV e V
della  legge  28  febbraio  1985, n. 47, e successive modificazioni e
integrazioni  come  ulteriormente  modificate  dall'articolo 39 della
legge   23  dicembre  1994,  n. 724,  e  successive  modificazioni  e
integrazioni  nonche'  dal presente articolo, si applicano alle opere
abusive  che  risultino  ultimate  entro  il  31 marzo 2003 e che non
abbiano  comportato  ampliamento  del  manufatto  superiore al 30 per
cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa
un  ampliamento  superiore a 750 mc», e che «le suddette disposizioni
trovano  altresi'  applicazione  alle  opere  abusive  realizzate nel
termine  di  cui  sopra relative a nuove costruzioni residenziali non
superiori  a  750  mc  per  singola  richiesta  di titoli abilitativi
edilizi   in   sanatoria»,   con  l'aggiunta,  avvenuta  in  sede  di
conversione  «a  condizione  che  la  nuova  costruzione  non  superi
complessivamente i 3000 mc».
    Posto  che  «la  misura dell'oblazione e dell'anticipazione degli
oneri  concessori,  nonche' le relative modalita' di versamento, sono
disciplinate  nell'allegato  1»  (comma 38), l'operativita' di quanto
enunciato e' poi assicurata dal comma 28, il quale dispone da un lato
che  «i  termini  previsti  dalle  disposizioni  sopra  richiamate  e
decorrenti  dalla  data  di  entrata in vigore dell'articolo 39 della
legge   23  dicembre  1994,  n. 724,  e  successive  modificazioni  e
integrazioni,  ove non disposto diversamente, sono da intendersi come
riferiti  alla  data  di  entrata  in  vigore  del presente decreto»,
dall'altro  che  per  «quanto  non  previsto  dal presente decreto si
applicano,  ove  compatibili,  le  disposizioni  di  cui  alla  legge
28 febbraio 1985, n. 47, e al predetto articolo 39».
    Ulteriori  norme  sono dettate dal comma 32 («la domanda relativa
alla  definizione  dell'illecito  edilizio,  con  l'attestazione  del
pagamento dell'oblazione e dell'anticipazione degli oneri concessori,
e'  presentata al comune competente, a pena di decadenza, entro il 31
marzo  2004, unitamente alla dichiarazione di cui al modello allegato
e  alla  documentazione di cui al comma 35») e dal comma 35, il quale
prevede con precisione e dettaglio la documentazione da allegare alla
domanda (pur ammettendo che vi possa essere «ulteriore documentazione
eventualmente prescritta con norma regionale»!). L'allegato 1 precisa
addirittura  che  la  domanda  di  definizione degli illeciti edilizi
«deve essere compilata utilizzando il modello di domanda allegato».
    La disciplina e' completata dalle norme di chiusura del comma 37,
secondo   cui   «il   pagamento   degli   oneri  di  concessione,  la
presentazione della documentazione di cui al comma 35, della denuncia
in  catasto,  della  denuncia  ai  fini  dell'imposta  comunale degli
immobili  di  cui  al  d.lgs.  30 dicembre 1992, n. 504, nonche', ove
dovute,  delle  denuncie  ai  fini della tassa per lo smaltimento del
rifiuti  solidi  urbani e per l'occupazione del suolo pubblico, entro
il  30 settembre 2004, nonche' il decorso del termine di ventiquattro
mesi  da  tale data senza l'adozione di un provvedimento negativo del
comune,  equivale  a titolo abilitativo edilizio in sanatoria»; e dal
comma  40,  che  avverte il bisogno di precisare che «all'istruttoria
della  domanda  di  sanatoria si applicano i medesimi diritti e oneri
previsti  per  il  rilascio  dei  titoli  abilitativi  edilizi,  come
disciplinati   dalle   amministrazioni   comunali   per  le  medesime
fattispecie  di  opere  edilizie»,  e  che «ai fini della istruttoria
delle   domande   di   sanatoria  edilizia  puo'  essere  determinato
dall'amministrazione  comunale  un  incremento dei predetti diritti e
oneri  fino  ad  un  massimo  del  10  per cento da utilizzare con le
modalita'  di  cui  all'articolo 2, comma 46, della legge 23 dicembre
1994, n. 662».
    Il  quadro ora esposto di una normativa statale che drasticamente
determina - tranne che per specifiche aree di particolare pregio o in
particolari  situazioni  -  il  venire meno di qualunque attivita' di
repressione  degli  abusi  edilizi compiuti - con totale frustrazione
anche  dell'attivita'  amministrativa  in corso - non risulta affatto
alterato  dai  riferimenti  che  lo  stesso  art. 32 opera a poteri o
compiti  regionali.  Si  tratta  infatti  di  poteri  e  compiti  che
rimangono  nel  quadro  marginali  ed  eventuali,  o  che addirittura
determinano  situazioni paradossali. Gia' si e' accennato che secondo
il  comma  3 «le condizioni, i limiti e le modalita' del rilascio del
predetto  titolo  abilitativo  sono stabilite dal presente articolo e
dalle  normative regionali». Ma e' evidente, nel contesto complessivo
sopra  illustrato,  che  questa  disposizione non puo' essere affatto
intesa  come  un generico rinvio a quanto sul tema volessero disporre
le  leggi  regionali, ma come un riferimento ai limitatissimi compiti
normativi che il «presente articolo» riconosce alle regioni;
    Di quali compiti normativi si tratti e' presto detto. Su un piano
generale,  il  comma 33 prevede che le regioni «entro sessanta giorni
dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (e dunque in un
termine brevissimo, tra l'altro coincidente con quello di conversione
del   decreto   stesso!)   emanino  «norme  per  la  definizione  del
procedimento   amministrativo   relativo   al   rilascio  del  titolo
abilitativo edilizio in sanatoria».
    Per vero, non si intende di quali norme possa trattarsi, dato che
il  procedimento  di  condono  e'  gia'  definito  dalle disposizioni
richiamate  della  legge  n. 47 del 1985 e 724 del 1994 nonche' dallo
stesso art. 32 del decreto nei commi sopra illustrati. Ed infatti dal
seguito  del  comma  33 e dal comma 34 si capisce che in realta' cio'
che  alle  regioni  e'  concesso di fare e' di inasprire per i propri
cittadini   i   costi   del   condono:   prevedere   «un   incremento
dell'oblazione  fino  al  massimo  del  10  per  cento  della  misura
determinata  nella  tabella  C  allegata»,  incrementare gli oneri di
concessione  fino  al massimo del 100 per cento». Inoltre, secondo il
comma  34,  la  legge  regionale  dovra'  stabilire  le «modalita' di
attuazione» della regola che consente a coloro che intendano eseguire
in  tutto o in parte le opere di urbanizzazione primaria di «detrarre
dall'importo   complessivo   quanto   gia'   versato,   a  titolo  di
anticipazione degli oneri concessori».
    Ancora,  come  gia'  visto,  il  comma  35  ammette  che la legge
regionale   eventualmente   preveda   «ulteriore  documentazione»  da
allegare alla domanda di condono.
    Questo   e'   il  ruolo  generale  che  l'art.  32  riserva  alla
legislazione regionale.
    Un discorso a parte va poi fatto con riferimento al comma 26.
    Va  premesso che l'Allegato 1 definisce tra l'altro la «tipologia
delle  opere abusive suscettibili di sanatoria alle condizioni di cui
all'art. 7,  comma  2»  (per  vero non si comprende tale riferimento,
dato  che  l'art. 7  del  decreto-legge riguarda tutt'altro). In ogni
modo,  tale tipologia distingue le opere abusive numerate da 1 a 6 in
categorie di gravita' decrescente. Precisamente, le tipologie sono le
seguenti:
        «Tipologia  1.  Opere  realizzate in assenza o in difformita'
del   titolo   abilitativo   edilizio   e  non  conformi  alle  norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;
        «Tipologia  2.  Opere  realizzate in assenza o in difformita'
del  titolo abilitativo edilizio, ma conformi alle norme urbanistiche
e  alle prescrizioni degli strumenti urbanistici alla data di entrata
in vigore del presente provvedimento;
        «Tipologia   3.   Opere  di  ristrutturazione  edilizia  come
definite  dall'articolo  3,  comma  1, lettera d) del d.P.R. 6 giugno
2001,  n. 380,  realizzate  in  assenza  o  in difformita' dal titolo
abilitativo edilizio;
        «Tipologia  4.  Opere  di restauro e risanamento conservativo
come  definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del d.P.R. giugno
2001,  n. 380,  realizzate  in  assenza  o  in difformita' del titolo
abilitativo edilizio, nelle zone omogenee A di cui all'articolo 2 del
decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444;
        «Tipologia  5.  Opere  di restauro e risanamento conservativo
come  definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del d.P.R. giugno
2001,  n. 380,  realizzate  in  assenza  o  in difformita' del titolo
abilitativo edilizio;
        «Tipologia  6.  Opere  di  manutenzione  straordinaria,  come
definite  all'articolo  3,  comma  1,  lettera b) del d.P.R. 6 giugno
2001,  n. 380  realizzate  in  assenza  o  in  difformita' dal titolo
abilitativo  edilizio; opere o modalita' di esecuzione non valutabili
in termini di superficie o di volume».
    Cio'  premesso,  il  comma  26  dispone che «sono suscettibili di
sanatoria edilizia le tipologie di illecito di cui all'allegato 1:
        a)  numeri  da  1  a  3,  nell'ambito  dell'intero territorio
nazionale,  fermo  restando quanto previsto alla lettera e) del comma
27, nonche' 4, 5 e 6 nell'ambito degli immobili soggetti a vincolo di
cui all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47;
        b) numeri 4, 5 e 6, nelle aree non soggette ai vincoli di cui
all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, in attuazione di
legge  regionale,  da  emanarsi  entro  sessanta giorni dalla data di
entrata  in  vigore del presente decreto, con la quale e' determinata
la  possibilita', le condizioni e le modalita' per l'ammissibilita' a
sanatoria di tali tipologie di abuso edilizio».
    Ne  risulterebbe  che,  mentre  gli abusi piu' gravi, e quelli di
minore  gravita'  compiuti  su immobili vincolati (cioe' i piu' gravi
degli  abusi  minori),  sarebbero senz'altro sanabili alle condizioni
generali;  quelli di assoluta minore gravita' (restauro e risanamento
conservativo  o  addirittura  la semplice manutenzione straordinaria)
sarebbero sanabili ... in quanto le singole regioni lo consentano con
le proprie leggi.
    Precisato  che  la  lettera  b)  -  in  quanto riconosce sia pure
limitati  poteri  regionali  -  non forma oggetto specifico di questa
impugnazione,  e'  tuttavia  di immediata evidenza che il sistema che
risulterebbe  dall'insieme  del  comma  e'  come  meglio si dira' tra
breve,   costituzionalmente   inaccettabile  per  irragionevolezza  e
violazione del principio di uguaglianza.
    Nei  termini  esposti, le impugnate disposizioni dell'art. 32 del
decreto-legge   n. 269   del  2003  sono  invasive  delle  competenze
costituzionali  delle Regioni e costituzionalmente illegittime per le
seguenti ragioni di

                            D i r i t t o

Premessa.
    Conviene  in  primo  luogo  ricordare  che  la ricorrente regione
propose  a  suo  tempo impugnazione avverso la riapertura del condono
operata dall'art. 39 della legge n. 724 del 1994.
    Codesta    ecc.ma    Corte    costituzionale,   riconosciuta   la
legittimazione  all'impugnazione, giudico' nel merito del ricorso con
la  sentenza  n. 416  del  1995.  Al punto 7 in diritto codesta Corte
cosi' si espresse:
        «Innanzitutto   deve   escludersi   che   la   riapertura   e
l'estensione dei termini (riferiti all'epoca dell'abuso commesso) del
condono   edilizio  (peraltro  con  ulteriori  limiti  e  presupposti
riduttivi) il cui carattere essenziale nella fattispecie e' quello di
norma  del  tutto eccezionale in relazione ad esigenze di contestuale
intervento   sulla   disciplina   concessoria   e   a  contingenti  e
straordinarie ragioni finanziarie e di recupero della base impositiva
dei  fabbricati,  vanifichi  di  per  se'  l'azione di controllo e di
repressione  delle  amministrazioni  ed  in  particolare  delle  piu'
attente.
    Infatti  l'entita'  del fenomeno di applicazione ed utilizzazione
della  norma impugnata nelle varie regioni (con un introito effettivo
di  quasi  tremila  miliardi limitato alla prima fase dei pagamenti),
induce  a  ritenere la diffusione tutt'altro che isolata del fenomeno
dell'abusivismo   edilizio   e   della   persistenza  delle  relative
costruzioni,  compiute  nel  periodo  successivo  al  31 ottobre 1983
(termine  di  riferimento  dell'art. 31,  legge n. 47 del 1985), fino
alla  nuova  data  di riferimento, 31 dicembre 1993. Cio' e' avvenuto
non   solo  per  il  difetto  di  una  attivita'  di  polizia  locale
specializzata  sul  controllo  del tenitorio, ma anche in conseguenza
della  scarsa  (o  quasi  nulla  in  talune  regioni)  incisivita'  e
tempestivita'  dell'azione  di  controllo e di repressione degli enti
locali  e delle regioni, che non e' valsa ad impedire tempestivamente
la  suddetta attivita' abusiva o almeno a impedire il completamento e
a rimuovere i relativi manufatti.
    Ben  diversa  sarebbe,  invece,  la  situazione  in caso di altra
reiterazione  di  una  norma  del genere, soprattutto con ulteriore e
persistente  spostamento  dei  termini  temporali  di riferimento del
commesso abusivismo edilizio. Conseguentemente differenti sarebbero i
risultati  della  valutazlone sul piano della ragionevolezza, venendo
meno  il  carattere  contingente  e del tutto eccezionale della norma
(con  le  peculiari  caratteristiche  della singolarita' ed ulteriore
irripetibilita)  in  relazione  ai valori in gioco, non solo sotto il
profilo  della  esigenza  di  repressione  dei  comportamenti  che il
legislatore  considera  illegali e di cui mantiene la sanzionabilita'
in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della
tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l'uomo.
    La   gestione   del  territorio  sulla  base  di  una  necessaria
programmazione   sarebbe   certamente  compromessa  sul  piano  della
ragionevolezza   da   una   ciclica   o  ricorrente  possibilita'  di
condono-sanatorla con conseguente convinzione di impunita' tanto piu'
che  l'abusivismo  edilizio  comporta effetti permanenti (qualora non
segua  la  demolizione  o  la  rimessa  in  pristino), di modo che il
semplice  pagamento  di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico
violato,  qualora  non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale».
    La  ricorrente,  regione  e'  dell'avviso  che  tale  ben diversa
situazione,  ipotizzata  da codesta Corte nella sentenza del 1995, si
sia purtroppo verificata.
    Si  deve,  inoltre,  aggiungere, prima dei motivi di diritto, una
considerazione   che   mette  ulteriormente  in  luce  quale  sia  la
considerazione  che  il  legislatore  statale ha delle esigenze della
tutela del territorio.
    I  commi  6,  9,  11 e 24 dell'art. 32 del d.l. n. 269/2003, come
convertito, prevedevano il reperimento e la destinazione vincolata di
risorse    preordinata    alla   effettuazione   di   interventi   di
riqualificazione  di  nuclei  edilizi  ed  urbani  caratterizzati  da
abusivismo edilizio. Il comma 6, in particolare, destinava 10 milioni
di  euro per l'anno 2004 e 20 milioni dl euro per ciascuno degli anni
2005 e 2006 al fine di concorrere alla partecipazione ad interventi e
politiche  di  riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di
abusivismo,  attivati  dalla  regione  attraverso  l'incremento della
oblazione,  secondo quanto disposto dal comma 33. Parimenti, al comma
9  del  d.l.  come convertito, erano previste risorse finanziarie per
attivare  un  programma  nazionale  di interventi di riqualificazione
delle  aree  per degrado economico-sociale (i cui ambiti di rilevanza
ed   interesse  nazionale  erano  da  individuarsi  con  decreti  del
Ministero   per   le  infrastrutture,  di  concerto  con  i  Ministri
dell'ambiente   e   d'intesa  con  la  conferenza  unificata)  e,  ai
successivi  commi 11 e 24, rispettivamente per interventi di recupero
e  riqualificazione paesaggistica, nonche' per la valorizzazione e il
miglioramento   delle   aree   demaniali.   Senonche'   tali  risorse
finanziarie - gia' ritenute palesemente insufficienti dalle regioni -
sono state completamente espunte dal testo legislativo ad opera della
legge  finanziaria  2004, che con il comma 70 dell'art. 2 ha abrogato
seccamente  i  commi  6,  9,  11 e 24, del sopra citato art. 32 della
legge  n. 326/ 2003, con cio' cancellando dal sistema di reimpiego di
parte  dei  fondi  provenienti  dal  condono  e  dalla  stessa  ratio
dell'art. 32,  qualsivoglia concreta possibilita' di attuazione degli
interventi  di  riqualificazione previsti, su un piano non certamente
marginale,  dalle  misure  di condono edilizio. Mentre ci si riserva,
pertanto  ogni  argomentazione  piu'  esaustiva  in  sede di autonoma
impugnazione  della  legge  finanziaria,  si rileva fin da subito, in
questa  sede,  la  irragionevolezza  e  la  scarsa attendibilita' del
meccanismo   congegnato  attraverso  le  varie  disposizioni  di  cui
all'art. 32, per realizzare finalita' di reale e credibile intento di
riqualificazione del territorio.

                            D i r i t t o

    1.  -  Illegittimita'  costituzionale  dei commi 1, 2, 3, 25, 26,
lett.  a),  in  quanto  dispongono  il  nuovo  condono  edilizio, per
violazione dell'art. 117, commi 2 e 3.
    La  presente  impugnazione  era  stata  presentata,  prima  della
riforma  costituzionale operata con la legge cost. n. 3 del 2001, con
argomenti  che conservano ad avviso della ricorrente regione tutta la
loro validita'.
    Non  si  puo'  tuttavia  ora  non  considerare  innanzi tutto gli
effetti  che  la  riforma  costituzionale  ha  comportato  per quanto
riguarda  il riparto di poteri legislativi ordinari tra lo Stato e le
regioni. Nel nuovo quadro, infatti, il legislatore ordinario statale,
pur  godendo  di una potesta' legislativa particolarmente ampia, e di
una   potesta'   esclusiva  nei  fondamentali  rami  dell'ordinamento
giuridico  (quali  l'ordinamento  civile  e  penale  e  l'ordinamento
processuale),   non  ha  piu'  tuttavia  una  competenza  legislativa
assolutamente generale.
    Occorre  dunque  in  primo  luogo  considerare  se la discpiplina
introdotta  dall'art. 32 del d.l. qui impugnato trova giustificazione
nei titoli che fondano la competenza legislativa statale alla stregua
dell'art. 117, comma secondo e terzo, Cost.
    Ad  avviso della ricorrente regione la risposta e' negativa, come
ora si cerchera' di illustrare.
        a) Impossibilita'  di  giustificare  la normativa statale nel
quadro della materia «governo del territorio».
    Non  puo'  essere  dubbio  che  la  normativa relativa al condono
incide  profondamente  nella  materia  «governo  del  territorio». Va
tuttavia  ricordato  che  fu  tale  materia,  come  in  tutte  quelle
assegnate  alla  potesta'  concorrente dello Stato e delle regioni, a
termini dell'art. 117, comma 3, Cost., la potesta' legislativa spetta
alle   regioni,   «salvo  che  per  la  determinazione  dei  principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato».
    Ora sembra palese che la disciplina del condono edilizio non puo'
essere  considerata  in  nesessun  senso «determinazione dei principi
fondamentali»  della  materia.  Al contrario, i principi fondamentali
della   materia  sono  sempre  stati  e  tuttora  sono  quelli  della
disciplina  edilizia  del  territorio, del controllo preventivo sulle
edificazioni e della repressione dei comportamenti illeciti. Cio' del
resto e' chiarissimo nella citata sentenza n. 416: il carattere della
disciplina  del condono e' «quello di norma del tutto eccezionale» in
relazione a comportamenti «che il legislatore considera illegali e di
cui mantiene la sanzionabilita' in via amministrativa e penale».
    E'  dunque evidente che non si tratta di esercizio della potesta'
statale  di  porre  i principi di materia, e che percio' l'intervento
non puo' essere giustificato a questo titolo.
    Va  precisato,  infatti, che il potere statale di «determinazione
dei  principi» non comprende oggi, nel nuovo contesto costituzionale,
il   potere   di   disporre  in  via  derogatoria  di  tali  principi
determinandone  la non applicazione per classi determinate e concluse
di comportamenti illeciti realizzati nel passato.
    Al contrario, si deve ad avviso della ricorrente regione ritenere
che l'attribuzione allo Stato del compito e del potere di determinare
i  principi  della  materia «governo del territorio» sia correlato ad
una  esigenza  positiva  di  assicurare  che  in tutte le regioni sia
garantita  una  soglia  predefinita di valori connessi al governo del
territorio.  Che tale sia il senso delle attribuzioni statali risulta
talora  piu'  evidente nello stesso testo costituzionale, come accade
ad  esempio  per  la  «tutela  dell'ambiente»  - che, si noti, non si
limitata  agli  aspetti  di  speciale  valore  paesistico  -  di  cui
all'art. 117,  comma secondo, lett. s); ma non puo' essere dubbio che
tale  e'  anche  il senso della attribuzione allo Stato di definire i
principi in materia di governo del territorio.
    Che   invece   l'attivazione   del   condono   sia   in   diretta
contraddizione  con  tali  valori  e' del tutto evidente, solo che si
consideri  che  la  base  del condono e' il puro scambio tra rinuncia
alla salvaguardia di tali valori in cambio di una somma di denaro. Ma
sul  punto  non  vi e' bisogno di insistere, essendo il disvalore del
condono gia' chiarissimo nella giurisprudenza costituzionale.
        b)   Impossibilita' di giustificare la normativa statale come
esercizio  di  potesta'  legislativa nella materia del «coordinamento
della finanza pubblica».
    L'art.   32  si  colloca  all'interno di un d.l. complessivamente
intitolato  Disposizioni  urgenti  per favorire lo sviliqipo e per la
correzione   dei   conti   pubblici.  La  finalita'  complessivamente
finanziaria  dell'intervento  smentisce completamente, da un lato, il
presunto,  scopo  di  «regolarizzazione  del  settore» proclamato dal
comma  1  dell'art. 32,  ma  certamente  costituisce uno scopo che lo
Stato  puo'  e  deve perseguire; cio' non toglie, pero', che lo debba
perseguire  nell'ambito  dei  poteri  legislativi che la Costituzione
riconosce al legislatore ordinario, e non al di fuori di tali poteri.
    Non  c'e'  dubbio, ad esempio, che il legislatore statale avrebbe
potuto  perseguire  le  proprie  finalita'  nel  quadro della propria
potesta'  esclusiva  in  materia  di  sistema tributario dello Stato.
Avrebbe  potuto perseguire i propri scopi anche attravrso la potesta'
concorrente  in  materia di «coordinamento della finanza pubblica» di
cui  all'art. 117,  comma  terzo, dettando nuovi principi sul sistema
tributario  e  finanziario delle regioni e degli enti locali come del
resto l'art. 119 gli imporrebbe di fare.
    Sembra tuttavia evidente che neppure il riferimento a tale ultima
materia   conduce   a   soddisfare   la   ricerca  di  un  fondamento
costituzionale  alla  disciplina  statale  qui impugnata. Per ragioni
analoghe  a  quelle  sopra  esposte  va  escluso  che si tratti della
posizione  di principi di materia: i principi di «coordinamento della
finanza  pubblica»  devono  essere norme fondamentali che stabilmente
disciplinano   l'assetto   finanziario   pubblico,  non  certo  norme
eccezionali  quali quelle sul condono; ne' d'altronde la posizione di
principi  in  tale  materia  e'  compatibile  con  il puro e semplice
asservimento  della  materia  urbanistica  ed  edilizia alle esigenze
finanziarie.
        c) Impossibilita'  di  giustificare la normativa statale come
esercizio  di  potesta'  legislativa  nella  materia dell'ordinamento
penale.
    Poiche' tra gli effetti del condono edilizio vi e' il venire meno
della  punibilita'  penale  in  relazione  agli illeciti commessi, va
esaminata l'ipotesi che la potesta' esclusiva statale in tale materia
possa  costituire  il fondamento giusilficativo dell'intera normativa
sul condono edilizio.
    Si  osserva,  in  primo luogo, che l'irrinuciabilita' del condono
edilizio  alla  questione  penale  e' gia' stata affermata da codesta
ecc.ma  Corte  costituzionale  nel  momento  stesso  in  cui  essa ha
dichiarato  ammissibile  il ricorso regionale avverso l'art. 39 della
legge n. 724 del 1994.
    In  secondo  luogo,  va  precisato  che la ricorrente regione non
contesta  affatto  l'esclusivita' del potere statale nel disporre del
«potere  di  clemenza»  in  materia  penale.  Benche' sia certo, come
statuito  nella  sentenza  n. 369 del 1988, che il potere di clemenza
puo'  incontrare  limiti  costituzionali,  non spetta alle regioni di
farli valere.
    Cio' che si contesta, invece, e' che disponendo di cio' di cui lo
Stato  poteva  -  almeno in relazione alle prerogative costituzionali
delle  regioni  -  disporre, lo Stato abbia anche disposto di cio' di
cui   non   poteva  disporre,  cioe'  della  sanzionabilita'  in  via
amministrativa degli illeciti edilizi.
    In altre parole, circa lo scambio tra denaro e punibilita' penale
la   Regione   Emilia-Romagna   ritiene   di   non  avere  titolo  ad
interloquire:  e  cio'  anche se il venire meno della sanzione penale
determina  una  riduzione  di  tutela di valori costituzionali di cui
anche  le  regioni  sono  responsabili.  Spetta infatti allo Stato di
decidere in quali casi la tutela dei valori debba essere guidata alla
sanzione penale.
    La  Regione  contesta  invece che all'esenzione dalla punibilita'
penale  possa o debba accompagnarsi l'accettazione del fatto compiuto
sul    terreno,    specificamente   regionale,   dell'amministrazione
dell'urbanistica,   con   il   venire   meno   della  sanzionabilita'
amministrativa degli illeciti.
    Ne'  si  puo'  dire che le due cose debbano necessariamente stare
insieme,  ne'  dal  punto di vista teorico ne' da quello pratico. Dal
punto  di  vista teorico, e' chiaro che l'esenzione dalla punibilita'
penale  costituisce  per i trasgressori un bene autonomo, distinto da
ogni  altro e particolarmente prezioso, data la gravosita' della pena
sia  in  se'  che  nelle sue conseguenze generali. Dal punto di vista
pratico,  e' agevolmente immaginabile ed organizzabile un sistema che
non  comporti  neppure  sul  piano  operativo  l'interferenza  con il
sistema  delle  sanzioni  amministrative:  ad esempio organizzando la
presentazione  delle  domande  di  condono  penale  al  di  fuori del
circuito  dell'amministrazione locale, o sancendo l'inutilizzabilita'
e   l'irrilevanza   di  tali  domande  nell'ambito  dei  procedimenti
amministrativi sanzionatori.
    Non   puo'  invece  il  legislatore  statale  ordinario  decidere
unilateralmente  il  sacrificio  di  quei  valori  del territorio che
sarebbe  suo  compito  costituzionale  di  tutelare  e  che le stesse
regoni, nell'ambito dei propri poteri legislativi e quelli componenti
della  Repubblica  ai  sensi  dell'art. 114 Cost., hanno il dovere di
difendere.
    In  conclusione,  se  ne'  la  potesta'  del  legislatore statale
ordinario  di  fissare  i  principi  del  governo del territorio, ne'
quella di fissare i principi di coordinamento della finanza pubblica,
ne'   infine   l'esclusiva   potesta'   statale   in  materia  penale
giustificano  sul piano costituzionale la normativa qui impugnata, se
ne  deve  concludere  che essa non poteva essere adottata dallo Stato
mediante un atto avente valore di legge ordinaria.
    2.  -  Illegittimita'  costituzionale degli stessi commi 1, 2, 3,
25,  26  lett. a), in quanto dispongono il nuovo condono edilizio per
violazione   dei   principi   di   ragionevolezza  e  di  eguaglianza
dell'art. 97, comma primo, nonche' degli artt. 117 e 118 Cost.
    Si  e'  data  qui  la  precedenza  alle ragioni di illegittimita'
costituzionale  della  normativa impugnata collegati al nuovo riparto
di  poteri  legislativi  tra  lo Stato e le regioni. Cio' non toglie,
tuttavia che conservino piena validita' tutte le ragioni di doglianza
gia'  prospettate  dalla  ricorrente  regione  con il ricorso rivolto
avverso  il  condono  attivato  dalla  legge n. 724 del 1994: ragioni
delle  quali  codesta  stessa Corte costituzionale ebbe ad affermare,
nella  citata  sentenza  n. 416  del 1995, che - se pure non potevano
accogliersi  di  fronte  od  una  decisione statale che ancora poteva
considerarsi   contrassegnata   dai   caratteri   di  un  eccezionale
intervento, collegato non solo alle contingenti e temporanee esigenze
finanziarie  dello  Stato,  ma alla definitiva chiusura della vicenda
dell'abusivismo edilizio - sarebbero state invece pienamente valide e
necessariamente  da accogliere nell'ipotesi «di altra reiterazione di
una  norma  del  genere,  soprattutto  con  ulteriore  e  persistente
spostamento   dei  termini  temporali  di  riferimento  del  commesso
abusivismo edilizio».
    Tuttavia,  piu'  che  riproporre  alla  lettera  quelle  ragioni,
conviene   qui   riproporre   le   parole  stesse  di  codesta  Corte
costituzionale,  gia'  citate  sopra  nella  Premessa.  Nel  caso  di
ulteriore  reiterazzione, osserva ancora la sentenza n. 416, verrebbe
meno  «il  carattere  contingente e del tutto eccezionale della norma
(con  le  peculiari  caratteristiche  della singolarita' ed ulteriore
irripetibilita)  in  relazione  ai valori in gioco, non solo sotto il
profilo  della  esigenza  di  repressione  dei  comportamenti  che il
legislatore  considera  illegali e di cui mantiene la sanzionabilita'
in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della
tutela  del  territorio e del correlato ambiente in cui vive l'uomo»,
con  conseguente valutazione di irragionevolezza. Infatti prosegue la
stessa  sentenza,  «la  gestione  del  territorio  sulla  base di una
necessaria  programmazione  sarebbe  certamente compromessa sul piano
della  ragionevolezza  da  una  ciclica  o ricorrente possibilita' di
condono-sanatoria con conseguente convinzione di impunibilita', tanto
che  l'abusivismo  edilizio  comporta effetti permanenti (qualora non
seguo  la  demolizione  o  la  rimessa  in  pristino), di modo che il
semplice  pagamento  di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico
violato,  qualora  non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale».
    Si tratta di considerazioni che, benche' espresse con riferimento
al  piano  della ragionevoleza, sono agevolmente collegabili ad altri
ed  espliciti  parametri  costituzionali.  Viene in rilievo, in primo
luogo,  il  principio  di  buon andamento dell'amministrazione di cui
all'art. 97   Cost.,  evidentemente  frustato  dalla  inanita'  della
maggior  parte  degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali di
reprimere  l'abusivismo  edilizio. Se e' vero che in taluni casi - ma
non,  si  ritiene,  se  non marginalmente nei comuni della ricorrente
regione - proprio l'inerzia delle amministrazioni puo' avere favorito
gli abusi, cio' non toglie affatto che consentire indiscriminatamente
la  sanatoria  dell'abuso  vanifica ogni sforzo gia' presente ed ogni
prospettiva  futura  (si  rammenti  che  il  carattere illecito della
costruzione  abusiva  non  viene meno per il solo decorso del tempo).
Cio'  tanto  piu'  e'  vero  se  si  considera  che  gli sforzi delle
amministrazioni  di  colpire  gli  abusi  richiedono di necessita' un
tempo non breve per pervenire al risultato concreto, data l'esistenza
delle   irrinunciabili  garanzie  giurisdizionali:  che  da  un  lato
doverosamente  tutelano chi abusivo in realta' non sia, ma dall'altro
non  raramente  consentono  comunque  di  procrastinare  nel tempo la
sanzione.
    Viene  poi in rilievo lo stesso principio di uguaglianza, leso da
una  normativa che da un lato ingiustamente uguaglia chi ha costruito
in  base  ad  un  titolo  legittimo  e chi ha costruito abusivamente,
dall'altro  ingiustamente  non  consente  di  portare ad uguaglianza,
attraverso  la sanzione, chi si e' astenuto da comportamenti illeciti
e chi illecitamente li ha compiuti.
    E'  chiaro, poi che questi vizi si traducono in una lesione delle
competenze  costituzionali della regione, che - a causa del condono -
vede  illegittimamente  frustrata la propria attivita' legislativa ed
amministrativa  di  governo  del  territorio,  in  quanto  gli  abusi
compiuti   possono   sfuggire   alle  sanzioni  amministrative  e  si
incentivano abusi futuri.
    3.  -  Illegittimita'  costituzionale degli stessi commi 1, 2, 3,
25, 26, lett. a), in quanto dispongono il nuovo condono edilizio, per
violazione  dell'art.  9  Cost.  e  del  principio  costituzionale di
indisponibilita' di valori costituzionalmente tutelati.
    Ad  avviso  della  ricorrente  regione le violazioni segnalate al
punto  precedente  si  collegano  ad  una  ulteriore  e piu' profonda
violazione   del   principio  implicito  nella  Costituzione  di  non
disponibilita'  da  parte  del  legislatore ordinario (non importa se
statale o regionale), dei valori costituzionalmente tutelati.
    Che   l'ordinario   assetto   del   territorio   sia   un  valore
costituzionalmente  tutelato non puo' essere messo in discussione, ed
e' del resto evidente - oltre che nell'art. 9, comma 2, Cost. - nella
stessa  costruzione  costituzionale  del  governo del territorio come
autonoma materia di legislazione.
    Tale  valore  costituzionale non puo' essere scambiato con valori
puramente finanziari.
    Il   fatto  che  il  sistema  della  finanza  pubblica  si  trovi
attualmente  -  ma  in  realta'  da  molti  anni  - in una situazione
difficile  non  puo'  costituire  ragione che autorizzi lo Stato allo
«scambio» tra illegalita' edilizia e prestazioni in danaro.
    Sia consentito ricordare alcune argomentazioni svolte nel ricorso
avverso il condono del 1994.
    «Proprio la condizione disastrosa della finanza pubblica non puo'
non  avvisare  della  circostanza che, se tale scambio dovesse essere
riconosciuto  come costituzionalmente legittimo e consentito, ad esso
fatalmente  ed  inevitabilmente  si tornerebbe a ricorrere ogni volta
che le stime di probabile gettito lo rendessero "consigliabile".
    In  altre  parole,  ogni  potenziale costruttore abusivo saprebbe
bene  che,  poiche'  il  problema  del  disavanzo  dello Stato non e'
destinato  a risolversi nella sua entita' fondamentale, ne' nel breve
ne'  nel  medio  periodo,  ma  semmai  soltanto  a  trovare  modi  di
progressivo  "contenimento"  ogni  suo  abuso  sara'  tollerato  e in
prospettiva  persino  gradito dato che cio' costituira' occasione per
periodiche "contribuzioni" al bilancio statale.
    Ma  basta  enunciare  tale  prospettiva per rendere evidente come
essa   drasticamente  ripugni  ai  valori  costituzionali,  trasformi
l'imperativo  della  legalita'  in  una  mera facolta' per chi voglia
semplicemente  vivere tranquillo, trasformi la tutela degli interessi
pubblici  e  dei valori costituzionali cui lo Stato e' chiamato in un
termine  meramente  economico,  rimpiazzabile  per  veri  o  presunti
equivalenti  monetari  secondo la necessita' dei governanti di trarre
fondi dai governati senza loro troppo dispiacere».
    Come  sottolinea  la  sentenza  n. 416  del  1995,  «il  semplice
pagamento  di  oblazione non restaura mai l'ordine giuridico violato,
qualora   non  comporti  la  perdita  del  bene  abusivo  o  del  suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimonia1e».
    In  questo  senso,  il  condono  edilizio  non  e' in nessun modo
paragonabile  ad altri condoni che pure comportino «clemenza» penale,
quali  i  condoni  fiscali,  infatti  se  anche  per  questi  si pone
indubbiamente   il   problema  del  complessivo  sovvertimento  della
legalita'   e   dell'incoraggiamento  che  da  essi  deriva  a  nuove
illegalita',  va  pero'  osservato  che,  nell'oggetto  specifico, si
tratta  di  una  rinuncia  ad  una  pretesa economica in vista di una
diversa,  e  sia  pure  piu'  ridotta,  pretesa economica: sicche' la
questione  acquista, nel suo oggetto specifico, un connotato quasi di
transazione ordinaria in relazione ad una lite patrimoniale.
    Il   condono   edilizio  opera  invece,  anche  nel  suo  oggetto
specifico,  su  beni  e  interessi indisponibili e costituzionalmente
tutelati  della comunita'. Tali beni, costituzionalmente protetti sia
direttamente in se stessi, sia indirettamente mediante un equilibrato
riparto   di   competenze  tra  diversi  livelli  di  responsabilita'
territoriale,  appartengono  alla comunita' e non possono in linea di
principio essere scambiati con «denaro» da nessun livello di governo,
senza  contraddire  quella «gerarchia di valori» sottolineata proprio
nella giurisprudenza costituzionale».
    Ne'  oggi  si  puo'  trovare  una  circostanza legittimante nella
«eccezionalita»  della  disciplina  del  condono,  ovviamente  oramai
venuta   meno:  non  si  potrebbe  certamente  ripetere  oggi  quanto
affermava  la  sentenza n. 369 del 1988, quando rilevava come andasse
«nettamente distinto, nella legge in esame "la legge n. 47 del 1985",
cio'  che attiene al futuro, nel quale il legislatore, nel riordinare
la  materia,  non  ammette  in  alcun  modo  sanatorie  per  le opere
contrastanti  con  gli  strumenti urbanistici da cio' che riguarda il
passato».
    Non le vane promesse di ogni passeggero legislatore ordinario, ma
soltanto  il  rispetto  della Costituzione puo' garantire che in ogni
momento  presente,  e  non  ogni volta in un lontano futuro, i valori
costituzionali si realizzino nella vita sociale.
    Anche in relazione a questi vizi, e' chiaro che essi si traducono
in una lesione delle competenze costituzionali della regione, che - a
causa  del  condono  -  vede  illegittimamente  frustrata  la propria
attivita' legislativa ed amministativa di governo del territorio, nei
termini gia' esposti al punto precedente.
    4. In subordine: illegittimita' del comma 26, lett. a), in quanto
subordina la sanabilita' alla legge regionale per gli abusi minori in
zone  non  vincolate,  sottraendo  alla decisione regionale gli abusi
maggiori e gli abusi minori in zone vincolate.
    Come  gia'  ricordato nella parte in fatto, il comma 26 determina
la  paradossale  situazione  per cui chi ha commesso abusi piu' gravi
puo'  senzaltro  usufruire della possibilita' del condono, mentre chi
ha  commesso  abusi  meno  gravi  puo'  usufruirne  se  le regioni lo
prevedono. Sembra chiara la violazione dei principi di ragionevolezza
e  di eguaglianza (e mediatamente degli artt. 117 e 118 Cost., per la
ripercussione  di  quei vizi sulle competenze regionali in materia di
governo del territorio).
    La  differenza e' verosimilmente da ricondurre - nelle intenzioni
del   legislatore  -  al  fatto  che,  nel  d.P.R.  n. 380/2001,  gli
interventi di cui al comma 26 lett. b), sono soggetti solo a denuncia
di  inizio attivita' e non a permesso edilizio; ma tale differenza ha
ripercussioni    sul    solo    piano   penalistico,   mentre   resta
costituzionalmente inaccettabile che gli illeciti amministrativi piu'
gravi  siano  senz'altro  condonabili mentre quelli meno gravi non lo
siano.
    Va  precisato  che ovviamente questa regione non impugna il comma
26,  lett.  b),  ma  il  comma  26,  lett. a)  nella parte in cui non
condiziona la sanabilita' dell'illecito amministrativo all'intervento
di  una  legge  regionale  che  lo  preveda. Infatti, in relazione ai
profili   amministrativi   dell'illecito   urbanistico,   non   trova
giustificazione  la  diretta sanabilita' degli interventi di cui alla
lett. a) e l'eventuale sanabilita' degli interventi di cui alla lett.
b),  e la conformita' a Costituzione puo' essere ristabilita nel modo
appena  indicato.  Sulla scindibilita' del profilo penale dal profilo
dell'illecito  amministrativo  si richiama qui quanto gia' esposto al
punto 1.
    5.  -  In  subordine:  illegittimita' del comma 25, in quanto non
eccettua   dal   condono  gli  abusi  per  i  quali  il  procedimento
sanzionatorio sia gia' iniziato.
    Anche  nella  denegata  ipotesi  che le censure sopra esposte non
risultassero  da  condividere,  la  ricorrente  regione  ritiene  che
sarebbe  comunque  illegittimo  che  la  disciplina qui impugnata non
abbia  escluso  - dall'ambito di applicazione del condono - gli abusi
per i quali il procedimento sanzionatorio sia gia' iniziato.
    E'  chiaro,  infatti, che in casi di questo tipo, la possibilita'
di  condono  risulta  ancora piu' irragionevole e maggiormente lesiva
del  principio di buon andamento dell'amministrazione: perche' quando
il procedimento sanzionatorio e' gia' iniziato, il condono non arreca
alcun vantaggio al pubblico interesse, ne' in termini di «uscita allo
scoperto»  di  chi  ha commesso l'abuso ne' in termini economici dato
che spesso le sanzioni urbanistiche hanno carattere pecuniario.
    Si  puo' ricordare che, nella sentenza n. 369 del 1988 di codesta
Corte, si osservava che «il fondamento sostanziale dell'estinzione di
cui  all'art. 38,  comma  2,  legge n. 47 del 1985 va ricercato nella
valutazione «positiva» che l'ordinamento compie dei comportamenti del
reo,    successivi   al   reato   («autodenuncia»   '...,   pagamento
dell'oblazione  ecc.),  che inducono a credere ad un sia pur parziale
«ritorno»   anche  se  non  del  tutto  spontaneo,  dell'agente  alla
«normalita»  (punto  4 del diritto). Pare chiaro che, nei casi in cui
il  procedimento  sanzionatorio  sia  gia'  iniziato,  il  fondamento
dell'estinzione dell'illecito (non solo di quello penale, ma anche di
quello  amministrativo)  sparisce. Si tenga inoltre presente che, sia
nella  sentenza  n. 369/1988 (punto 6 del Diritto) sia nella sentenza
n. 416/1995  (punto  7  del  Diritto)  sia nella sentenza n. 427/1995
(punto  3  del  Diritto) la Copte costituzionale ha dato rilievo, per
giustificare  il  condono, all'inefficienza delle amministrazioni nel
controllo  sul territorio: inefficienza che non sussiste in relazione
agli abusi per i quali sia in corso il procedimento sanzionatorio.
    Premiare  chi  ha  violato le norme urbanistiche ed e' stato gia'
«scoperto»,   dunque,   e'   profondamente   irragionevole,  vanifica
l'attivita' gia' svolta dai comuni e disincentiva le future attivita'
di repressione, dato il carattere ormai ciclico dei condoni (se anche
questo fosse ritenuto legittimo).
    Anche  tali  vizi naturalmente, si traducono in una lesione delle
competenze  costituzionali  della  regione, che vede illegittimamente
frustrata  la  propria  attivita'  legislativa  ed  amministrativa di
governo del territorio.
    6. - In subordine: illegittimita' costituzionale dei commi 3, 25,
26,  lett. a), 28, 32, 35, lett. a) e b), 37, 38, 40 e Allegato 1, in
quanto  con disciplina dettagliata ed autoapplicativa stabiliscono le
modalita', i termini e le procedure relative al condono edilizio.
    E'  chiaro  che l'accoglimento di una delle censure di cui ai nn.
1,  2  e  3  implicherebbe  la  non  applicabilita'  delle  norme che
disciplinano  la  procedura  di  condono (o, qualora codesta Corte lo
ritenesse  necessario,  la  dichiarazione  della  loro illegittimita'
conseguenziale ex art. 27 legge n. 87/1953).
    Qualora,  invece,  in  denegata  ipotesi,  si  ritenesse  che  la
previsione di un nuovo condono sia, per qualunque e qui imprevedibile
ragione,  legittima,  si  dovrebbe  ad avviso della regione perlomeno
ammettere   l'illegittimita'   di   quelle  norme  di  dettaglio  che
stabiliscono  le  modalita',  i  termini  e  le procedure relative al
condono edilizio.
    Si  fa  riferimento, in particolare, alle norme (gia' individuate
nella  parte in fatto) di cui ai commi 28 (concernente i termini), 32
(concernente  la  presentazione  della  domanda),  35,  lett. a) e b)
(concernente  la  documentazione  da  allegare alla domanda), 37 (che
prevede  il  meccanismo  del silenzio-assenso), 38 (quanto meno nella
parte  in  cui  fa  riferimento  alla misura degli oneri concessori e
delle relative modalita' di versamento) e 40 (concernente i diritti e
gli oneri previsti per l'istruttoria della domanda di sanatoria).
    Nonostante quanto disposto dall'art. 32, comma 3 (secondo cui «le
condizioni,  i limiti e le modalita' del rilascio del predetto titolo
abilitativo   sono  stabilite  nel  presente  provvedimento  e  dalle
normative  regionali»)  e  comma  33  (secondo  cui «le regioni entro
sessanta  giorni  dall'entrata  in  vigore del presente provvedimento
emanano  norme  per  la  definizione  del procedimento amministrativo
relativo  al rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria»),
la  legge,  cosi'  come il d.l. disciplina il procedimento di condono
con  norme  non cedevoli, dato che, in casi specifici (gia' ricordati
nel fatto), prevede poteri di intervento regionali.
    Ora,  la  presenza di norme di dettaglio, per giunta non cedevoli
potrebbe  giustificarsi  solo  sulla  base  di una competenza statale
esclusiva  ma  non  si  vede  quale  materia  -  fra  quelle previste
dall'art. 117,  comma  2,  Cost.  -  possa comprendere le norme sulle
modalita' sui termini e sulle procedure relative al condono edilizio.
    Qualora,  invece si ritenesse che, in virtu' dei commi 3 e 33, le
norme  di  dettaglio  di  cui  sopra  siano  cedevoli, esse sarebbero
comunque  illegittime. Si puo' ricordare che codesta Corte si e' gia'
espressa  sul punto, con un accenno nella sentenza n. 282/2002, punto
4  del  diritto  («La  nuova  formulazione  dell'art. 117,  comma  3,
rispetto   a   quella  previgente  dell'art. 117,  comma  1,  esprime
l'intento di una piu' netta distinzione fra la competenza regionale a
legiferare  in  queste materie e la competenza statale, limitata alla
determinazione dei principi fondamentali della disciplina») e in modo
piu' chiaro nella sentenza n. 303/2003, punto 16 del Diritto, dove si
statuisce  l'inammissibilita' di norme statali di dettaglio cedevoli,
salvo  il  caso  che  cio' sia necessario per «assicurare l'immediato
svolgersi  di  funzioni  amministrative  che lo Stato ha attratto per
soddisfare  esigenze  unitarie  e  che  non possono essere esposte al
rischio  della  ineffettivita»  («Non  puo'  negarsi che l'inversione
della  tecnica di riparto delle potesta' legislative e l'enumerazione
tassativa  delle competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere
la  possibilita'  di  dettare  norme suppletive statali in materie di
legislazione concorrente, e tuttavia una simile lettura dell'art. 117
svaluterebbe  la  portata  precettiva dell'art. 118, comma primo, che
consente  l'attrazione  allo  Stato, per sussidiarieta' e adeguatezza
delle   funzioni   amministrative   e   delle   correlative  funzioni
legislative,  come  si e' gia' avuto modo di precisare. La disciplina
statale  di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea
compressione   della   competenza   legislativa  regionale  che  deve
ritenersi   non   irragionevole,  finalizzata  com'e'  ad  assicurare
l'immediato  svolgersi  di  funzioni  amministrative  che lo Stato ha
attratto  per  soddisfare  esigenze unitarie e che non possono essere
esposte al rischio della ineffettivita»).
    Poiche' le norme impugnate non attraggono allo Stato ex art. 118,
comma  1, tanto e' vero che attribuiscono la competenza ai comuni, le
norme  statali  di  dettaglio  risultano,  alla  stregua dei principi
enunciati, chiaramente illegittime.
    Si  noti  che, nel caso di specie, la lesivita' di una disciplina
di   dettaglio,   seppure   in  ipotesi  astrattamente  cedevoli,  e'
particolarmente  evidente:  visto  che  le  domande di condono devono
essere  presentate  entro il 31 marzo 2004, ben poca utilita' avrebbe
una  legge  regionale  che  intervenisse  a  disciplinare il relativo
procedimento,  dato  che  essa si applicherebbe solo alle domande non
ancora  presentate:  con  ulteriore  disuguaglianza  e violazione del
principio di buon andamento dell'Amministrazione.
    Dunque  se  si  legittima  l'inserimento  di  norme  di dettaglio
cedevoli  nelle  leggi statali, si rischia di legittimare il completo
esproprio  della  potesta'  legislativa  regionale,  nel  caso in cui
l'applicazione dei nuovi principi statali sia destinata ad esaurirsi,
per  volonta'  dello  stesso legislatore stata1e, in breve tempo. Ne'
pare  possibile  eccepire  che,  in casi come questi, e' l'urgenza di
applicazione  della  legge  statale  a giustificare l'invasione della
competenza  regionale.  A  parte  il fatto che proprio il caso che ci
occupa  dimostra come la valutazione di urgenza sia molto soggettiva,
un  equilibrato  bilanciamento  delle ipotetiche ragioni di urgenza e
dell'autonomia  regionale  potrebbe  giustificare, al massimo, che lo
Stato  detti una disciplina di dettaglio destinata ad operare qualora
le  regioni  non  si attivassero entra un certo termine, ma non certo
una  disciplina che immediatamente produca i suoi effetti, in pratica
annullando qualsiasi margine d'azione regionale.
    Ne   risulta   confermata   l'illegittimita'  delle  norme  sopra
indicate.
    7.  - In subordine: ulteriore illegittimita' dei commi 25 e 35 in
quanto  consentono di «far passare» per gia' costruite opere In corso
costruzione  o  ancora da costruire. Violazione degli artt. 3, 9, 97,
117 e 118 Cost.
    Il  comma  25  dell'art. 32 estende il condono alle opere abusive
ultimate  entro  il  31 marzo 2003: dunque, solo sei mesi prima della
pubblicazione  del  decreto-legge  (l'art  39  legge  n. 724/1994  si
applicava  alle  opere  ultimate  solo un anno prima, l'art. 31 legge
n. 47/1985  alle  opere ultimate diciassette mesi prima). Il comma 32
prevede  che la domanda sia corredata dalla documentazione «di cui ai
comma  35». Questo stabilisce che «la domanda di cui al comma 32 deve
essere corredata dalla seguente documentazione:
      a)  dichiarazione  del  richiedente  resa  ai sensi dell'art. 4
della  legge  4 gennaio  1968,  n. 15,  e  successive modificazioni e
integrazioni,  con  allegata  documentazione fotografica, dalla quale
risulti  la  descrizione delle opere per le quali si chiede il titolo
abilitativo edilizio in sanatoria e lo stato del lavori relativo;
      b)qualora  l'opera  abusiva  superi  i  450  metri cubi, da una
perizia  giurata  sulle  dimensioni  e  sullo stato delle opere e una
certificazione  redatta  da  un tecnico abilitato all'esercizio della
professione attestante l'idoneita' statica delle opere eseguite;
      c)  ulteriore documentazione eventualmente prescritta con norma
regionale».
    Ora,   e'   intuitivo,   ed  e'  comprovato  dall'esperienza  del
precedenti  condoni,  che, in assenza di norme rigorose sul punto, la
possibilita'  del condono fa sorgere la «tentazione» di «far passare»
per  gia'  costruite  opere  in  corso  di  costruzione  o  ancora da
costruire.  In altre parole, il condono, che ufficialmente e' rivolto
ad  eliminare  la  sanzionabiita'  degli  abusi  passati,  in realta'
produce nuovi abusi presenti.
    I  commi 25 e 35 contengono norme che non fanno nulla per evitare
questa possibilita' e, anzi la favoriscono.
    In  primis,  la  fissazione di un termine ad quem ravvicinato nel
tempo  rende  piu'  difficile se non impossibile distinguere le opere
ultimate  da  quelle  non ultimate, sia in relazione all'attivita' di
vigilanza  amministrativa (che ha avuto poco tempo per svolgersi) sia
in  relazione  allo stato di degrado del materiali. Inoltre, il comma
35  si  accontenta, in pratica, di un'autocertificazione per la prova
dello  «stato  del lavori» solo «qualora l'opera abusiva superi i 450
metri cubi» si richiede «una perizia giurata sulle dimensioni e sullo
stato  delle  opere»  (che,  a  quanto pare, dovrebbe esser anch'essa
redatta  «da  un  tecnico abilitato all'esercizio della professione»,
anche   se,   letteralmente,   il  tecnico  e'  menzionato  solo  con
riferimento alla cerlificazione sull'idoneita' statica).
    Ora,  e'  evidente che questa norma, collegata a quella che fissa
il  dies  ad quem al 31 marzo 2003, rende concreta la possibilita' di
«far  passare» per gia' costruite opere che in quella data erano solo
in  corso  di  costruzione  e, addirittura, si presta ad incoraggiare
nuove  costruzioni  abusive  e  condonabili,  data  la difficolta' di
verificare la veridicita' dell'autocertificazione.
    E'  del  tutto  irragionevole  una norma che fa affidamento sulla
sincerita'  di  chi ha gia' commesso un abuso; le ragioni della buona
amministrazione  e  della tutela dal territorio (e dunque gli art. 9,
97,  117  e  118  Cost.) non solo sono menomate dalla sanatoria delle
opere  realmente  ultimate  ma sono ulteriormente poste a repentaglio
dalla  possibilita',  insita  nelle norme di cui sopra, di perpetrare
nuovi abusi e di farli condonare.
    Ne'   si  dica  che  l'amministrazione  puo'  dimostrare  la  non
preesistenza  dell'opera:  perche' e' veramente chiedere una probatio
diabolica  pretendere che il comune sia in grado di dimostrare che un
determinato manufatto edilizio non esisteva nel marzo 2003!
    Dunque, il comma 35 e' illegittimo nella parte in cui non prevede
in  tutti  i casi la necessita' che il costruttore o il direttore del
lavori  attesti,  sotto  la  propria  responsabilita'  anche  penale,
l'ultimazione  del lavori alla data prevista. Se pure anche in questo
modo  non  si potrebbe escludere la possibilita' di' falsi attestati,
e'  tuttavia  evidente  in  primo  luogo  che una dichiarazione falsa
nell'interesse  di terzi e' meno probabile di una dichiarazione falsa
nell'interesse  proprio,  e inoltre che, dovendo in questa ipotesi di
regola  la  dichiarazione  essere  fatta da professionisti la perizia
falsa  rappresenterebbe  un  illecito  particolarmente grave e dunque
poco probabile.
    Dal  canto  suo,  il  comma 25 e' illegittimo, per violazione del
medesimi  parametri, nella parte in cui fissa il termine del 31 marzo
2003  anziche'  uno  piu'  risalente, che potrebbe essere individuato
considerando    quale    minimo   intervallo   ragionevole   per   la
condonabilita'   di   abusi   passati  quello  fissato  a  suo  tempo
dall'art. 31 legge n. 47/1985.
    8.  -  In  subordine:  ulteriore  illegittimita'  del comma 37 in
quanto  prevede  un  meccanismo  silenzio-assenso,  Violazione  delgi
art. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost.
    Il comma 37 prevede che, avvenuti alcuni adempimenti, «il decorso
del  termine  di  ventiquattro  mesi (dal 30 settembre 2004]... senza
l'adozione  di un provvedimento negativo del comune equivale a titolo
abilitativo  edilizio  in  sanatoria».  Il decreto-legge n. 269/2003,
dunque,  prevede il meccanismo del silenzio-assenso in relazione alle
domande  di  sanatoria,  laddove  tale  istituto  non  e' contemplato
neppure  dalla  disciplina generale del permesso edilizio (v. art. 20
d.P.R. n. 380/2001).
    Pare  chiara  l'irragionevolezza  di  una  norma  che consente la
sanatoria  degli abusi, con tutte le rilevanti conseguenze, in virtu'
del  solo  decorso  del tempo. Tale norma viola gli art. 9, 97, 117 e
118   Cost.   perche'   rende   eventuale  Il  controllo  del  comuni
sull'ammissibilita'  delle  domande di condono, ledendo ulteriormente
le competenze regionali in materia di governo del territorio.
    La  lesivita'  dalla norma pare ulteriormente aggravata dal fatto
che,  nel  caso  di  specie, non sembra applicabile la norma generale
dell'art. 20  legge n. 241/1990, che attribuisce all'amministrazione,
nei  «casi»  di cui al primo periodo dell'art. 20, comma 1, il potere
di annullare l'atto di assenso illegittimamente formato. Ma, se anche
si  ritenesse  che  i  comuni  possano  annullare  le  concessioni in
sanatoria  «sorte»  in  virtu'  del silenzio protratto per il termine
previsto,  nell'esercizio  di  un  potere  generale di autotutela, la
norma  sarebbe  comunque  illegittima, perche' nel momento fra cui si
decide  di  sanare,  a  certe  condizioni, gli stravolgimenti operati
abusivamente   sul  territorio,  occorre  che  almeno  le  condizioni
richieste   siano   verificate.   E'   del   tutto   irragionevole  e
discriminatorio   assoggettare   le   domande   di  permesso  che  si
riferiscono ad opere sicuramente abusive (perche' dichiarate tali dai
richiedenti)  ad  un regime di verifica meno severo di quello vigente
per  le  domande di permesso che vengono dichiarate dagli interessati
conformi alla disciplina urbanistica.
    Ne'  varrebbe  obbiettare  che,  sul  piano del fatto, il termine
previsto  e'  sufficientemente  lungo  perche'  i comuni si attivino,
perche'  proprio  il  numero  delle  domande  che  contemporaneamente
vengono   presentate   ovviamente   aggrava   la   situazione   delle
amministrazioni  e  ne  prolunga  i  tempi  di azione, come la stessa
esperienza dei precedenti condoni ampiamente conferma.
    9.  -  In  subordine:  ulteriore  illegittimita' del comma 25, in
quanto  prevede  un  limite  di  volume  per  ogni singola richiesta.
Violazione degli art. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost.
    L'art  32,  comma 25, d.l. n. 269/2003, come gia' l'art. 39 legge
n. 724/1994,   prevede  che  siano  sanabili  le  «nuove  costruzioni
residenziali  non  superiori  a  750 mc per ogni singola richiesta di
titolo abilitativo edilizio In sanatoria».
    Ora,  dopo  la  conversione, esso stabilisce che sono sanabili le
opere  abusive  realizzate  nel termine di cui sopra relative a nuove
costruzioni  residenziali  non superiori a 750 metri cubi per singola
richiesta  di titolo abilitativo edilizio in sanatoria, «a condizione
che  la  nuova  costruzione non superi complessivamente i 3.000 metri
cubi».  Dunque,  ora  la  disposizione  pone  un  limite  non solo in
relazione  alla  singola  opera  da sanare ma anche in relazione alla
costruzione   complessiva.   Resta,  pero',  la  illegittimita'  gia'
denunciata con il ricorso n. 83/2003, in quanto la norma in questione
appare  irragionevole  e  lesiva  dei  parametri indicati in epigrafe
nella  parte  in  cui non precisa che non sono ammesse piu' richieste
riferite alla medesima area: e' chiaro, infatti, che, anche alla luce
di  quanto previsto dall'art. 39 legge n. 724/1994, potrebbero essere
stati  costruiti  edifici  attigui,  ognuno  dei quali rispettoso del
limite  di volume sanabile, al fine di eludere il limite stesso. Cio'
arrecherebbe   un'ulteriore   vulnus  alle  esigenze  di  tutela  del
territorio e alle relative competenze regionali.
    Poiche'   gli   emendamenti   apportati  al  decreto-legge  hanno
efficacia  solo per il futuro (v. art. 15 comma 5, legge n. 400/1988,
che in realta' conferma il generale principio di irretroattivita), si
censura  qui  specificamente  l'art. 32,  comma 25 nella sua versione
originaria  (che  potrebbe  essere  gia' stato applicato, qualora una
domanda  di  condono  sia  stata accolta prima dell'entrata in vigore
della  legge  di conversione), in quanto non solo non precisa che non
sono  ammesse piu' richieste riferite alla medesima area, ma non pone
neppure  un  limite  di  volume  complessivo per la nuova costruzione
abusiva:  cosi'  risultando  ancora  piu'  irragionevole  della norma
introdotta  dalla  legge  n. 326/2003  e  maggiormente  lesivo  delle
esigenze  di  tutela  del  territorio  e  delle  relative  competenze
regionali.  Tale  norma, pur se efficace solo in relazione al periodo
di  vigenza del decreto-legge, e' stata «stabilizzata» dalla legge di
conversione, che l'ha modificata solo per il futuro.
    10. - In subordine: illegittimita' costituzionale del commi 1, 2,
3,  25,  26,  lett.  a)  per  mancato  coinvolgimento delle autonomie
regionali.
    A  quanto  risulta, ne' in sede di adozione del decreto legge ne'
in  sede di adozione del disegno di legge di conversione le autonomie
regionali    sono   state   consultate   attraverso   la   Conferenza
Stato-regioni.  Poiche',  come  visto,  la  disciplina  qui impugnata
riguarda materie di competenza regionale, tale mancato coinvolgimento
lede  il principio di leale collaborazione, espressamente sancito ora
nel Titolo V della Costituzione.
    In  particolare,  risulta  violato  l'art. 2,  comma  3,  decreto
legislativo   n. 287/1997,   in   base   al   quale   «la  conferenza
Stato-regioni  e'  obbligatoriamente sentita in ordine agli schemi di
disegni  di  legge  e  di  decreto legislativo o di regolamentato del
Governo  nelle  materie  di competenza delle regioni o delle province
autonome di Trento e di Bolzano». Ne' si puo' obiettare che, nel caso
di  specie,  la  consultazione  non era possibile, dato che l'art. 2,
comma  3,  decreto legislativo n. 281 disciplina espressamente i casi
di urgenza: «quando il Presidente del Consiglio dei ministri dichiara
che ragioni di urgenza non consentono la consultazione preventiva, la
Conferenza  Stato-regioni  e consultata successivamente ed il Governo
tiene  conto  dei  suoi  pareri: a) in sede di esame parlamentare dei
disegni  di  legge  o  delle leggi di conversione dei decreti-legge».
Dunque,  la  mancata  consultazione della Conferenza risulta comunque
illegittima.
    Si  tenga presente, per comprendere l'importanza del principio di
leale  collaborazione  nel  nuovo titolo V, anche il modo in cui essa
viene  concretato dall'art. 11 legge n.3/2001. La circostanza che non
sia  ancora stata realizzata la speciale composizione integrata della
Commissione parlamentare per le questioni regionali non toglie che il
principio  di  partecipazione  regionale  al procedimento legislativo
delle  leggi statali ordinarie, quando queste intervengano in materia
di   conpetenza   concorrente,   ha   ora   espresso   riconoscimento
costituzionale.
    Del  resto,  e'  da sottolineare che codesta Corte costituzionale
gia'  nella sent. n. 398 del 1998 (punto 16 del Diritto) ha annullato
una  norma  legislativa  statale incidente sulle competenze regionali
per   mancato   coinvolgimento   delle   regioni   nel   procedimento
legislativo.